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Irradiazioni

~ Tua res agitur, paries cum proximus ardet

Irradiazioni

Archivi Mensili: gennaio 2013

Il futuro si chiama Bersamontismo

15 martedì Gen 2013

Posted by Ars Longa in Economia, Politica italiana

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Bersani, elezioni, Ingroia, liberismo, Mario Monti, NoiseFromAmerika, Oscar Giannino, sondaggi, Vendola, welfare state, Zingales

Non mi piacciono i sondaggi ma li leggo. E li leggo guardando al quadro complessivo, al risultato che basandosi su di essi potrebbe uscire fuori dalle urne il giorno dopo.
Il tormentone che si imporrà nei giorni prossimi è già stato adombrato – con obiettivi diversi – sia da Bersani che da Berlusconi. Lo “chiameremo scenario del voto utile”. Bersani chiede un voto robusto alla sua coalizione per raggiungere una massa critica di forza parlamentare che, con il premio di maggioranza arrivi al 51%. Ma ha già detto una cosa importante: “Non si governa con il 51%”. O meglio – come molti sanno – non l’ha detta lui ma Enrico Berlinguer. Questa frase apre scenari precisi e lancia messaggi altrettanto precisi. Va interpretata – a mio modo di vedere – in questo modo: vinte le elezioni si dovrà fare in modo di governare inaugurando una politica precisa – pensa Bersani – ossia un mix tra liberismo e politica sociale. Il liberismo dovrà essere garantito da Monti e la guardia alla politica sociale la dovrà montare il PD. Se volete che lo dica chiaramente sono convinto che l’idea di Bersani sia quella di scaricare Vendola e imbarcare Monti. Creando cinque anni di Bersamontismo, un micidiale incrocio tra politiche di welfare minimale e picconate liberiste.
L’operazione dal punto di vista della governabilità verrebbe premiata dai numeri. La somma in termini di peso elettorale di PD+Lista Monti sarà superiore a quella PD+SEL. Dal punto di vista della facilità di governo l’operazione poi eliminerebbe le troppe differenze tra gli uomini di SEL e i fedelissimi di Monti. E se volete aggiungerci un elemento sarebbe anche gradita in Vaticano e nei luoghi dell’economia italiana che conta.
Presto o tardi – ragiona Bersani – alcune scelte metteranno PD e SEL in rotta di collisione e non si può rischiare di vivere un secondo autoaffondamento del centro-sinistra come fu con Prodi. Perché ad un certo momento Vendola – per non perdere la faccia – si ritroverà nella condizione di contestare alcune scelte. Vendola non si può accontentare di avere lo zuccherino dei diritti civili e rimanere muto spettatore di scelte liberiste. Certo, magari per un po’, grazie ad una più attenta gestione delle riforme liberiste si potrà far finta di nulla ma, prima o poi, si dovranno attaccare ancora i lavoratori come già successo con l’articolo 18. E la ragione di questa mossa l’ho spiegata in alcuni post precedenti. A questo punto Vendola sarebbe costretto a staccarsi per mantenere la sua identità di sinistra. Porterebbe a casa quei deputati in Parlamento che il suo partito non ha e farebbe una opposizione che oggi può fare solo nelle piazze.
Il duo Bersani-Monti proseguirebbe in modo più morbido il cammino degli ultimi tredici mesi del cosiddetto “governo dei tecnici”. La numericamente miserabile pattuglia dei neo-liberisti di “Fare”, ossia i Giannino, il gruppetto dei radicali da poltrona universitaria estera di NoiseFromAmerika a caccia di poltrone italiane, l’hanno già capito il gioco e, esattamente speculari, a Vendola hanno deciso di non entrare nel pattuglione di Monti. Monti che, per loro, sarebbe un lento pachiderma incamminato verso lo stravolgimento della vita delle persone. Troppo lento per loro Monti ma utile, perché un governo Bersani-Monti che faccia lentamente buona parte del lavoro sporco che non saprebbero fare loro, apre buoni scenari. Perciò anche per Giannino, Zingales e sodali è importante appoggiare le terga ad una poltrona parlamentare e aspettare lì che è sempre meglio che starsene dentro ad un blog.
Il vero danneggiato dalla alleanza Bersani-Prodi sarebbe proprio Berlusconi e parzialmente la Lega. Berlusconi perché si vivrebbe cinque anni di opposizione senza collocazione. Infatti il PDL (o come si chiamerà, ma è lo stesso) è impegnato a non diventare irrilevante e a cogliere un buon successo nelle tre regioni che contano (Lombardia, Lazio e Sicilia). Tutto ciò che riuscirà ad acchiappare oltre il 20% sarà un successo. La Lega sa già che per sopravvivere deve rifugiarsi al Nord e contare sulle tre regioni che contano: Lombardia, Piemonte e Veneto. Da questa specie di Fort Alamo riuscirebbe a difendere meglio la sua esistenza tentando di gestire localmente l’urto che dovrà subire dalle riforme del duo Bersani-Monti. In questo senso la Lega si è già attrezzata. La Destra di Storace e quel che gli ex An sparsi produrranno è puro pulviscolo atmosferico: ininfluente. A sinistra del PD c’è il calderone dei partitini rissosi che a forza di scissioni saranno in grado di organizzare i loro congressi agevolmente dentro delle cabine telefoniche. Può essere che Ingroia porti a casa un risultato che potrebbe essere lusinghiero se intorno al 4%. A quel punto una SEL risospinta all’opposizione ma con un manipolo di deputati in Parlamento potrebbe provare a incollare i pezzi della “sinistra-sinistra” sperando di ripetere il lungo percorso decennale che la sinistra greca ci ha messo per formare Syriza. A patto però che assuma una posizione seria nelle giunte locali ossia non si venda al PD nei Comuni facendo una finta opposizione in Parlamento.
Bersani e Monti insieme compiranno un miracolo di resurrezione dell’anima centrista del Paese e cercheranno di far bere agli italiani il calice di una ricetta economica sballata (quella montiana) che verrà aggravata perché diventerà contraddittoria. C’è una cosa peggiore del neoliberismo ed è un neoliberismo somministrato ad un paziente semiaddormentato dalla retorica della coesione sociale.
Ma tutto questo è quel che vogliono non solo in Vaticano ma anche a Berlino, a Londra e a Parigi: cinque anni di lento uniformarsi all’ipocrisia delle politiche dell’Unione Europea e alla creazione di un capitalismo caritatevole in salsa italica. Abbiamo vissuto gli anni della follia berlusconiana, vivremo adesso anni di un grigiore simile alla melassa. Un rigore in dosi calibrate, un governo più attento a non provocare la sensibilità della gente ossia senza i deliri della Fornero. Ma sostanzialmente invariato nella sua formula.
Il neoliberismo arriverà ma piano, sommessamente, senza dosi massicce ma arriverà. O, meglio, è già qui.

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Senza una politica estera non si esce dalla crisi

12 sabato Gen 2013

Posted by Ars Longa in Economia, Politica italiana

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Algeria, Bersani, Enrico Mattei, Ingroia, Libia, Marocco, Monti, Politica estera, sviluppo, Tunisia, Vendola

Voterò. Ma mettendo la scheda nell’urna non nutrirò alcuna speranza per il futuro. Il voto che ci apprestiamo a dare non garantisce alcun cambiamento perché nessuna delle forze che si candida a governare il Paese ha uno straccio di idea chiara su come farlo. Ho letto tutti i programmi, i non programmi, le agende in circolazione: non ho trovato nulla di serio. Nessuno, dai neoliberisti di Giannino agli arancioni di Ingroia ha quella che gli americani chiamano vision. Ossia una visione globale del problema. E questo è evidente dal fatto che in politica estera nessuno sa cosa dire. Certamente alcuni di voi penseranno che la politica estera sia qualcosa di secondario in questo momento. In realtà chi non ha le idee chiare sulla politica estera non ha le idee chiare su nulla. Avere le idee chiare in politica estera significa saper sviluppare un nuovo modello di difesa militare. Significa domandarsi cosa ci serve, non in base alle richieste di generali e ammiragli interessati ad avere il meglio possibile della tecnologia militare, ma in base a quello che vogliamo fare. Avere le idee chiare in politica estera significa saper orientare un piano di politica industriale in base a quelli che abbiamo deciso debbano essere i nostri partner commerciali principali, le aree nelle quali intendiamo svilupparci, i prodotti che intendiamo vendere.
L’economia non è la finanza e noi siamo stati abituati in questi ultimi due anni a pensare in termini di soldi e non di sviluppo. Lo sviluppo economico è molto più complesso e multifattoriale rispetto allo spread o alla politica monetaria. Ma, soprattutto, ragionare di economia ci porta a prendere delle decisioni di lungo periodo. Gli ultimi anni, dal 2001 in poi, sono stati anni di confusione di idee in politica estera. I governi Prodi balbettavano, i governi di Berlusconi hanno cercato vie assurde come la creazione di rapporti con Putin e disastrose intese con il defunto dittatore Gheddafi. Il risultato è stato inevitabile: nebulosità e politiche di basso profilo.
La crisi ci sta insegnando una lezione importante: abbiamo rinunciato alla nostra collocazione geografica e siamo rimasti ostaggi dei Paesi del Nord Europa. Che lo vogliamo o no il nostro ruolo è nel Mediterraneo. Dovremmo rafforzare la collaborazione e la concertazione prima di tutto con Spagna e Grecia. Con la Francia che ha forti interessi mediterranei, con la Turchia. E poi con tutti i Paesi della costa sud: Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto. In questa area le nostre capacità e la nostra tecnologia possono giocare un ruolo importante.
Si tratta di una politica che abbiamo progressivamente abbandonato dopo la morte di Enrico Mattei nel 1962 e che non abbiamo più saputo riprendere in modo strategico.
Occorre un grande piano di rilancio di questo Paese e per farlo occorre avere una visione sul futuro globale. Il fatto che l’Agenda Monti non spenda una parola sulla immigrazione (che proviene per una buona parte dai Paesi che ci interessano) è sintomatico. Le uniche parole spese dal “professore” sono generiche e degne di un compitino da liceale: “La collocazione geografica dell’Italia al centro del Mediterraneo impone di guardare con più coraggio e con una visione strategica ai grandi cambiamenti politici, economici e civili suscitati dalla primavera araba e di sostenere percorsi di vera democratizzazione”. Questo l’unico accenno di Monti alla politica estera. A me non pare abbastanza. Gli altri concorrenti non ragionano diversamente, né il duo Bersani-Vendola, né tantomeno il confuso tribuno Grillo, né l’armata brancaleone coagulata intorno a Ingroia, né le schegge impazzite neoliberiste hanno da dire qualcosa sull’argomento.
Voteremo quindi per eleggere qualcuno – chiunque sia – che pensa che la crisi si risolva facendo le pulizie in casa a prescindere da quello che succede nel mondo. Ciò che facciamo in casa nostra non è slegato da quanto accade intorno a noi ed il futuro è fuori dalla nostra casa. Se non saremo attrezzati a interpretarlo – ed oggi nessuno si sta impegnando a farlo – non riusciremo ad uscire da questa crisi.

La grande bugia del debito pubblico

10 giovedì Gen 2013

Posted by Ars Longa in Economia, Politica italiana

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Berlusconi, competitività, deflazione, disoccupazione, Germania, Monti, salari, tasse

Siete convinti che il debito pubblico sia il vero problema di questa nazione? Vi hanno drogato dal punto di vista informativo in modo definitivo o avete voglia di ragionare?
Se il problema fosse il debito pubblico le nazioni che l’avevano basso all’inizio della crisi, a rigore, avrebbero dovuto soffrire meno. Ad esempio la Spagna. La nazione iberica, infatti, negli anni precedenti alla crisi, presentava un rapporto fra debito/PIL assolutamente basso: 36,2% nel 2007, 39,8% nel 2008. La balla del debito pubblico messa in giro da Monti, dalla banda dei neoliberisti ora concentrati insieme a Giannino nel loro partitino da cabina telefonica è dura a morire. In più ci si mettono tutte le agenzie di informazione. Perciò dentro ogni bar basta dire “il debito pubblico in Italia è troppo alto” e tutti annuiscono. Un riflesso condizionato che oramai è penetrato nel cervello degli italiani.
Perché il vero problema è la perdita di competitività, non certo il debito pubblico.
E per parlarvi di competitività devo spiegarvi qualcosa di un po’ complesso: il CLUP. Il CLUP è il costo del lavoro per unità di prodotto.  In altre parole è il rapporto fra redditi unitari da lavoro dipendente (ossia il costo del lavoro per addetto), e la produttività media del lavoro (ossia il prodotto per addetto).
La perdita di competitività si verifica quando i prezzi interni aumentano rispetto ai prezzi medi internazionali. Quando succede questo solitamente le banche centrali svalutano la moneta per riacquistare competitività. L’Italia, prima dell’euro, ma non solo l’Italia, l’ha fatto molte volte. Ora non può più farlo perché con l’introduzione dell’euro non ha più il governo della moneta. Tenetevi a mente questa cosa perché adesso andiamo in Germania.
Un dato certo è che dal 2003 al 2009 i salari dei lavoratori tedeschi sono cresciuti dell’ 1% annuo. Contemporaneamente – sempre in Germania – i prezzi sono saliti in media del 2%. Questo significa che il lavoratore tedesco in media ha perso ogni l’1% di salario reale perché non c’è stato adeguamento totale alla crescita dei prezzi.
Ma vi ripetono che il problema è il debito pubblico. Va bene: guardiamo i dati prima della crisi. Periodo 2000-2005. La Francia aumenta in cinque anni il suo debito pubblico del 9,3%, la Germania l’aumenta del 8,3%, il Portogallo l’aumenta del 14,3%. Se andiamo a vedere i Paesi che stanno nei guai avrete una sorpresa: la Grecia tra 2000 e 2005 l’abbassò del 3,2%, l’Irlanda del 10,4% l’Italia abbassò il suo debito pubblico del 3,2%. La Spagna – pensate un po’ – riuscì ad abbassarlo del 16,2%.
Allora qualcuno potrebbe chiedere: come mai il debito pubblico tedesco tra 2003 e 2009 è aumentato? La risposta è che i tedeschi hanno avuto maggiori spese passando da 923 a 1043 miliardi di euro, minori spese non compensate dalle entrate che sono cresciute ma di poco. Il governo tedesco in 6 anni spese 120 miliardi in più. Magari potreste domandarmi: come hanno speso questi soldi? Hanno speso 90 miliardi per sostenere le imprese e il mercato del lavoro, poi hanno aumentato le spese per il settore scolastico e universitario di 8 miliardi e hanno speso 3 miliardi in più per l’edilizia popolare.
Allora adesso mette insieme i dati e farete una scoperta: da un lato il governo tedesco tagliava i salari dell’1% annuo e dall’altro lato compensava i lavoratori dandogli sostegno, più istruzione, più case. In questo modo i lavoratori tedeschi non si sono ribellati, non hanno sentito come in Italia tutto il peso della “austerità” e dei tagli lineari.
Perciò i Tedeschi hanno giocato sporco: hanno sostenuto le loro aziende (mentre chiedevano a gran voce che gli altri Paesi europei non lo facessero) e contemporaneamente – grazie alla perdita di valore di acquisto dei salari – hanno fatto crescere la loro competitività.
Allora qual’è la morale? E’ che i tedeschi quando serve – senza porsi troppi problemi – il debito pubblico l’aumentano eccome. E l’aumentano in modo intelligente, per aumentare la competitività senza spezzare le reni della gente con una austerità priva di senso.
Ma sento già qualcuno che mi dice: “ci stai dando dati vecchi, poi è arrivata la crisi e ha cambiato tutto”. Eh no. La crisi è arrivata per noi e molto meno per la Germania. Certo i Tedeschi hanno avuto i loro problemi e una fetta del surplus accumulato l’hanno speso per salvare le loro banche. Ma quando è arrivata la crisi – grazie a quello che avevano fatto prima – l’hanno scaricata su di noi “cicale”. Perché la Germania ha funzionato come una pompa che ha succhiato risorse agli altri. Siccome la Germania è nell’Euro per guadagnare competitività non ha svalutato la moneta, ha ridotto i salari e aumentato il debito pubblico per mantenere la coesione sociale. I Tedeschi – nonostante quello che si dice – non hanno il tabù del debito pubblico perché aumentandolo sapevano benissimo che – proprio grazie all’aumento di competitività – si sarebbero ripresi molto più dei 120 miliardi. L’operazione che i Tedeschi hanno fatto si chiama deflazione competitiva che ha reso moltissimi soldi. Ne volete la dimostrazione? Bene guardate la variazione del saldo commerciale tedesco. Nel 1999 la bilancia commerciale tedesca era in attivo per 91 miliardi di euro, nel 2007 era in attivo per 239 miliardi! E di questi 239 miliardi ben 157 sono arrivati dagli altri Paesi europei. Nell’Europa del sud (Grecia, Spagna, Italia, Portogallo) le vendite dei Tedeschi sono andate a gonfie, gonfissime vele. Nel 1999 compravamo, noi sudisti d’Europa, merci tedesche per 21 miliardi di euro, nel 2007 per 97 miliardi di euro. La Germania si è arricchita con la domanda di beni degli altri Paesi europei e ha mantenuto bassa la domanda interna. Oggi con la crisi continua a tenere bassa la sua domanda interna. Se aumentasse staremmo un po’ meglio tutti.
L’unico modo per uscire dalla crisi per noi italiani, per i greci, per gli spagnoli sarebbe a nostra volta aumentare la produttività. Ma la ricetta europea, la ricetta di Berlusconi, poi quella di Monti è sempre la stessa: tagli, aumento delle tasse, attacco ai diritti dei lavoratori. La cosa più immorale è che in Italia da anni si sta cercando di rilanciare la competitività attraverso la disoccupazione. Quando c’è disoccupazione – e quindi quando c’è molta domanda di lavoro – la disponibilità alla moderazione salariale di quelli che un posto ancora ce l’hanno è massima. Nessuno è disponibile a perdere il posto di lavoro in tempi di crisi. Più disoccupazione c’è più i salari reali diminuiscono e le persone sono disponibili a lavorare di più per quattro soldi, a non chiedere aumenti. Ma ottenere un aumento di produttività lasciando che la disoccupazione aumenti è un suicidio economico se, contemporaneamente non si fa qualcosa per sostenere le persone, ossia spendendo dei soldi e aumentando il debito pubblico. I tagli, l’austerità in più non ci farebbero ottenere nulla come non ci hanno fatto ottenere nulla sino ad ora. I tagli oggi come oggi hanno come unico scopo quello di farci arrivare alla stessa inflazione della Germania. E sarebbe già un buon risultato. Ma pensate che la Germania starebbe a guardare? Avendo molte più risorse annullerebbe il vantaggio conseguito da noi che arranchiamo con una altra manovra con ulteriori ribassi competitivi dell’inflazione.
Ecco che sento l’ultima domanda: “allora che si fa?”. Si fa quello che Monti non vuol fare, che Berlusconi non ha mai fatto. Quello che i raffinati neoliberisti alla Giavazzi e alla Ichino vogliono scongiurare. Si tengono bassi i salari non spingendo alla disperazione le persone attraverso la disoccupazione ma attraverso una politica di sostegno al reddito esattamente come quella fatta dai Tedeschi tra 2003 e 2007. Non ti aumento lo stipendio ma lancio una politica di edilizia popolare o trovo altri strumenti per farti pagare meno l’affitto. Non ti aumento lo stipendio ma sostengo con una politica espansiva il mercato del lavoro. Insomma prendo in mano Keynes e a calci nel sedere i rappresentati di quel neoliberismo suicida che sta uccidendo questa nazione.

Agenda Monti: il grande bluff

08 martedì Gen 2013

Posted by Ars Longa in Economia, Politica italiana

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Agenda, Agenda Monti, carceri, diritti, disoccupazione, Elsa Fornero, Financial Times, Mario Monti, Paola Severino, spending review

Wolfgang Münchau, in un articolo comparso sul Financial Times il 9 dicembre dello scorso anno (che potete leggere qui) si occupava di Mario Monti. Münchau sostiene che l’anno di governo di Monti altro non è stata se non una bolla perché nulla è cambiato realmente e l’Italia, dopo un anno, si ritrova al punto di partenza ma, con in più, una profonda depressione economica.
Ma la cosa più interessante è che l’articolista del Financial Times scrive che oggi occorre “rovesciare l’austerità immediatamente”, perché “l’innalzamento delle tasse e i tagli di spesa hanno avuto effetti controproducenti” . Il 9 dicembre Münchau non poteva conoscere le decisioni di Monti e metteva nel conto delle possibilità un impegno in politica del professore tra le varie ipotesi.
La conclusione cui arrivava Münchau è che l’Italia ha bisogno di un leader di quel che c’è da fare rimanendo ancorati all’eurozona. Un elemento interessante dell’articolo era l’idea che Monti non sia stato capace di affrontare Angela Merkel sul problema del debito. In altri termini visto che l’Italia è in recessione e il suo debito è al 130% del PIL senza una iniziativa di “mutualizzazione del debito” (ossia un serio impegno della Germania a trovare una via di uscita globale (che si chiami eurobond o qualcos’altro ha poca importanza) il nostro Paese non può rimanere in Europa. Monti non avrebbe saputo porsi in una posizione sufficientemente forte per discutere con la Merkel. Questa incapacità – sempre secondo Münchau – nasceva dalla stessa posizione di Monti, ossia quella di non avere alle spalle la legittimità di un voto popolare.

Oggi, ad un mese di distanza da quell’articolo, sappiamo come stanno andando le cose. Monti sta cercando quella legittimità di cui ha bisogno. Contrariamente a Münchau credo che se la ottenesse non la userebbe per porsi in modo più forte di fronte alla Germania. Semplicemente perché Monti non ha ancora deciso cosa fare. Le 25 pagine della Agenda Monti (che potete scaricare qui) sono pura nebbia. Per capirci faccio soltanto un esempio tratto dalla seconda pagina: “…. l’Italia, deve chiedere all’Europa politiche orientate nel senso di una maggiore attenzione alla crescita basata su finanze pubbliche sane, un mercato interno più integrato e dinamico, una maggiore solidarietà finanziaria attraverso forme di condivisione del rischio, una maggiore attenzione alla inclusione sociale e alla sostenibilità ambientale.” Un ottimista potrebbe dire che è intenzione di Monti chiedere all’Europa (ma diciamocelo francamente: alla Germania) una qualche forma “mutualizzazione del debito”, ossia quello che Münchau suggeriva. Un ottimista appunto. Perché ad essere realisti questa frase non dice nulla, o meglio: non ha neppure il coraggio di dire le cose che servono. L’Agenda non dice: per uscire dalla crisi occorre che la Germania si assuma le sue responsabilità, sta solo auspicando “maggiore attenzione”. Tralascio il resto che ha meno significato di un vaneggiamento tanto è obliquo e impreciso.Qualcosa di meno evanescente lo si vede a partire da pagina quattro quando Monti cerca di farci sapere la su ricetta: pareggio di bilancio strutturale. riduzione dello stock del debito pubblico di un ventesimo ogni anno, valorizzazione/dismissione del patrimonio pubblico. Certo, si tratta di qualcosa di più preciso ma la domanda è: si tratta della ricetta che ci serve? Perché qui c’è un assunto ideologico non dimostrato: la riduzione del debito pubblico è il toccasana da cui poi discende ogni altra cosa. E questa è una sciocchezza da liberisti ciechi di fronte ai problemi.
Tra le tante altre dichiarazioni evanescenti e sciocchezze evidenti sottolineo solo la parte intitolata “Italia 2.0: l’Agenda digitale”. Sembra di sentire le sciocchezze che la Gelmini ci regalava dopo che Abravanel gliele aveva insufflate nelle orecchie. Come fa Monti a raccontarci questa fiaba di una pubblica amministrazione digitalizzata se la nostra rete è in condizioni da Terzo Mondo? Come si fa a suonare la trombetta dell’Italia 2.0 quando non si spiega come si farà, con quale estensione, con quali tempi una vera banda larga e cioè come si troveranno i fondi per far poggiare l’intero sistema sulla fibra ottica? Chi mi legge se è fortunato, viaggia a 20 mega nominali (molto nominali) e paga cifre assurde per farlo. E di fronte a ciò che credibilità hanno le frasi da scolaretto di Monti? E per il turismo cosa dice Monti? Di fatto se scorrete pagina 14 la grande risposta di Monti per rilanciarlo è far macchina indietro e centralizzare (ma non avevamo detto che bisognava decentralizzare?) la gestione del turismo. Che significa “rafforzare il coordinamento centrale”? Creare un ministero ad hoc? Per ulteriori delucidazioni Monti ci rinvia al “piano strategico per il turismo”. Non sono riuscito a procurarmelo ma, sospetto, non sarà più innovativo di quanto è l’Agenda.
Una Agenda che è un compitino di buoni propositi. Con la disoccupazione all’11% l’Agenda (pagina 15) ci dice che bisognerà intervenire per “ridurre a un anno al massimo il tempo medio del passaggio da un’occupazione all’altra”. Come signor Monti? Mistero.E come fa il signor Monti (pagina 18) a sostenere la necessità di “potenziare l’assistenza domiciliare dei parzialmente sufficienti e dei non autosufficienti” quando i tagli di quest’anno hanno lasciato sole migliaia di famiglie?
Mi fermo qui. Nulla sui diritti. Nulla di serio sulla riforma universitaria, nulla di serio sulla situazione carceraria. Ma soprattutto nulla di serio in generale. Questa non è neppure una Agenda ma una lista di contraddizioni. Perché il signor Monti non spiega come farà a trovare i fondi anche per una soltanto delle sue (discutibili) iniziative mentre comprime il debito pubblico. Non ci dice come farà a comprimere il debito pubblico e, contemporaneamente, a ridurre le tasse. Non ci dice come pensa di ridistribuire la ricchezza e ridurre le diseguaglianze
Ma soprattutto Monti non spende neppure una parola nella Agenda sul problema della immigrazione. E badate bene non lo dico soltanto io, se ne è accorto – tanto per cambiare – il Financial Times che in un articolo di due giorni fa di Guy Dinmore scrive che non ci sono indicazioni su una politica per gestire l’immigrazione (“But his 25-page “Agenda Monti” is thin on social issues, making no reference to immigration policies”).
E tutto questo quando oggi si ha notizia che il tasso di disoccupazione giovanile è al 37,1% e che la pessima ministro Fornero declina ogni responsabilità perché si tratta di una conseguenza di “errori di lungo periodo”. Ma non avevamo detto che c’era un bisogno di tecnici per salvare il Paese? Non sapeva la Fornero accettando il suo incarico che avrebbe dovuto lavorare sul problema? Non le si chiedeva di risolvere tutto con la bacchetta magica ma, almeno, di non aggravare la situazione con gli errori di breve periodo. E tutto questo mentre la UE ci dice che corriamo il rischio di entrare in una “enorme trappola della povertà”.
E sempre oggi la Corte Europea di Strasburgo ha condannato l’Italia a pagare 100.000 euro di danni morali a sette detenuti per aver violato i loro diritti mettendo a loro disposizione tre metri quadrati di cella. Il ministro Severino – che in tredici mesi si è adoperata per chiudere i tribunali, compresi quelli efficienti – Si dice “avvilita, non stupita” e imputa tutto alla mancata approvazione del ddl del governo sulle misure alternative alla detenzione. E si potrebbe chiedere allora: perché ha affrontato questo problema alla fine dell’anno e non all’inizio del governo Monti? Quale è il sistema di valutazione che ha nella testa ministro Severino?
La triste verità è che abbiamo perso un anno di tempo. Complice il presidente Napolitano è stato impedita l’unica cosa seria da fare: andare alle elezioni subito dopo le dimissioni del Nonno Sporcaccione. Si è interrotta la normalità democratica, si è consegnato il Paese a una pattuglia di pseudo-tecnici il cui scopo era soltanto salvare le istituzioni bancarie. In tredici mesi Monti e i suoi ministri non hanno saputo costruire neppure le premesse per il rilancio di questo disgraziato Paese. L’unico risultato all’attivo di Monti è la costituzione di una armata brancaleone di partiti e personaggi abbondantemente screditati.
A questo Paese non serve una Agenda Monti, serve qualcuno che non si vede all’orizzonte: qualcuno che abbia chiaro il quadro di quel che serve. In questo aveva ragione un mese fa Wolfgang Münchau.

Yi-Fu Tuan

06 domenica Gen 2013

Posted by Ars Longa in Il libro del giorno

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geografia umana, glocal, gobalizzazione, localismo

Yi-Fu Tuan

Se lo cercate su Wikipedia in italiano non lo troverete. Anche la pagina in inglese è davvero striminzita e dice poco o nulla. Yi-Fu Tuan è un professore di geografia umana che compirà 84 anni nel dicembre di quest’anno. Nato in Cina, giovanissimo, è emigrato ed è arrivato negli Stati Uniti che sono la sua seconda patria. Ha insegnato molti anni all’Università del Minnesota. Per vedere la sua faccia (che a me fa pensare un poco allo Yoda di “Guerre Stellari”) potete consultare il suo sito web personale. Di lui in italiano è stato edito un solo libro dieci anni fa dal titolo “Il cosmo e il focolare”. Originariamente il titolo era “Il cosmo e il cuore” ma, per un vezzo tutto italiano, i nostri traduttori lo hanno reso parecchio male. Perché lo propongo come lettura in un blog che non si occupa di geografia? Perché dietro alla geografia Yi-Fu Tuan sta parlando di un argomento ancora più vasto: noi e la globalizzazione. Il punto di partenza di queste 160 paginette è il concetto di cultura e di come le culture si incontrano e si integrano. E in questo incontro il concetto di spazio diventa strategico. Ma non “spazio” inteso come dimensione fisica ma come dimensione ideologica. La globalizzazione produce uno “spazio ideologico comune”. Una enorme piazza nella quale condividiamo moltissimo con persone fisicamente distanti da noi. Il quadro di riferimento che ciascuno ha di sé, ossia la triade cultura-territorio-identità tende ad andare in pezzi e le persone percepiscono un disagio crescente. Percepire di essere dentro ad una cultura precaria, formata da elementi sconosciuti o poco conosciuti diventa problematico. La reazione che la maggior parte delle persone è stata quella di rifugiarsi nel piccolo, nel privato, nell’intimo, oppure nella creazione di “piccole patrie”, di identità polemicamente ristrette di fronte alla globalizzazione. La ricerca di aggregazioni su base locale è diventata una strategia consueta. Nel nostro Paese il localismo è dilagato con esiti in campi anche distanti. Ad esempio politicamente con il fenomeno della Lega o, nel Meridione, con movimenti “neo-borbonici”. Oppure la nascita di ideologie di consumo “a chilometro zero”, o di pensieri economici che cercano di porre in primo piano non più economie di scala ma economie simili a quelle di sussistenza. Globale e locale in lotta sono l’espressione di un periodo storico di transizione e di molta sofferenza personale. Stiamo vivendo dentro una epoca caratterizzata da profondi terremoti socio-economici accompagnati da un continuo sciame sismico emozionale. Yi-Fu Tuan è prezioso perché affronta questo cozzare tra globale e locale. Il “cuore” o il “focolare” è la famiglia, la cerchia di amicizie, la città nella quale viviamo e di cui conosciamo la topografia spaziale ed umana. Il cosmo è tutto ciò che sta al di là del focolare. E come riuscire a conciliare l’uno e l’altro è la lezione di Yi-Fu Tuan che guida chi ne legge i ragionamenti verso il concetto di “focolare cosmopolita”. Realizzarlo significa non sentirsi estranei ovunque si sia. Perciò si tratta di una lettura preziosa. Se riuscite a scovarlo in qualche rimasuglio di libreria o online vi consiglio vivamente di acquistarlo e di leggerlo con la calma che contraddistingue gli intenditori di sigari e cognac, seduti in poltrona e assaporando lentamente i concetti.

PS. A chi conosce l’inglese consiglierei quello che tecnicamente è il capolavoro di Yi-Fu Tuan: “Topophilia: a study of environmental perception”.

Nuovismo e liberismo

05 sabato Gen 2013

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flaneurotic, neoliberismo, Renzi

Non credo che questo Paese dia abbastanza spazio ai giovani. Sono convinto che occorrerebbe svecchiare il corpo politico. Tuttavia, di fronte al fenomeno Renzi dei mesi scorsi sono rimasto piuttosto sconcertato e anche divertito. Sconcertato perché l’equazionismo ideologico che identifica con l’assenza di rughe il bello, il buono e il desiderabile mi sembrava tramontato per sempre dopo la metà degli anni Novanta. Divertito perché ho letto una enciclopedia di stupidate in giro per il web d far accapponare la pelle. Ad esempio l’autore del blog Flaneurotic – che consiglio sempre per la sua inedita mistura di foglio dedicato ai necrologi illustri dell’anno e ai ragionamenti spesso lunari – tempo fa si diceva entusiasta sostenitore di Matteo Renzi. Un gustosissimo pezzo intitolato “Matteo Renzi e il babau neoliberista” forniva uno spaccato del “nuovismo de noantri” che ha scosso l’Italia con la disfida di cartone inaugurata dal “rottamatore” toscano.
Flaneurotic la prende alla lontana. Lui non trova da nessuna parte il “neoliberismo” e addirittura con una capriola logica ci dice che siccome le politiche dell’Unione Europea non sono quelle di Reagan allora non ci si trova di fronte a politiche neo-liberiste. Insomma per Flaneurotic il neo-liberismo ha da essere di un bel colore netto, senza sfumature diverse, altrimenti no, non è neo-liberismo. E per farci capire cita – piuttosto a vanvera – il pensiero di von Hayek qualificandolo come antitecnocratico. Il che è la cosa più buffa che abbia mai letto a proposito di von Hayek e per capirlo basta pensare alla sua proposta di sostituire la democrazia con una demarchia ossia, nelle parole di Hayek: “un sistema di governo in cui, pur non essendoci alcun potere al di sopra di quello della maggioranza, anche questo sarebbe limitato dal principio secondo il quale esso possiede il potere coercitivo solo nella misura in cui sia stato predisposto in modo tale da essere legato a norme generali” (L’utopia liberale, p. 61). Hayek insomma – e lo esplicita più avanti – predicava una democrazia “corretta” con una buona dose di “competenti” non soggetti all’arbitrio del voto democratico. Ora non è difficile capire che i “competenti” alla fine sono i “tecnici”. Ora se è abbastanza evidente che Flaneurotic di Hayek ha una conoscenza diciamo “per sentito dire”, non ha miglior fortuna nell’acutezza percettiva di quel che accade intorno a lui. Flaneurotic si domanda: dove sta il neoliberismo in Europa? Scarta la Germania dicendo “parlare di modello neoliberista riferendosi alla Germania sarebbe un’evidente sciocchezza”. Flaneurotic è – probabilmente – troppo giovane per avere conoscenza dell’antichità del dibattito sulle diverse forme di capitalismo. Purtroppo nel 1991 Flaneurotic doveva portare i calzoni molto corti per ricordarsi un libro intitolato “Capitalismo contro capitalismo” di Albert, edito dal Mulino. L’autore all’epoca distingueva tra il modello anglo-sassone liberista e quello tedesco-francese keynesiano. E ripeto: correva l’anno 1991. Dal 1991 al 2013 sono passati ventidue anni. Gli anni necessari a permettere alla Germania di cambiare profondamente il proprio modello e a Flaneurotic di passare dai banchi delle scuole medie al tavolo con il suo computer per distillare saggezza nel suo blog. Il che significa che la Germania del 1991 non è la Germania del 2013. Il che significa che il modello renano è abbondantemente andato in pezzi. Neppure in Gran Bretagna Flaneurotic trova tracce di neoliberismo e dice “Soltanto l’UK thatcheriana degli anni ’80 risponde a certi criteri classificatori, ma quindici anni di New Labour meriterebbero una analisi più approfondita”. Certamente, la meriterebbero soprattutto da parte di Flaneurotic che della politica di Tony Blair in senso neoliberista non ha capito nulla. Perché – ipnotizzato dalla parolina Labour – forse ci vuol vendere Blair come qualcuno che ha fatto politiche diverse dal neoliberismo. Forse a Flaneurotic sfugge l’attività dell’attuale governo britannico come ad esempio il piano di tagli al welfare state da 30 miliardi di euro in discussione a Londra. Oppure gli sfugge la discussione sull’introduzione della Tobin Tax e l’incidenza delle attività finanziarie sul PIL britannico. Ma eravamo partiti da Renzi. Come ci arriva Flaneurotic? Con questo fulgido passaggio: “Tutti costoro chiamano regolarmente – in buona o cattiva fede – “neoliberismo” quello che dovrebbe essere una novità quasi assoluta per l’Italia: un libero mercato dotato di regole”. I costoro per Flaneurotic sono ovviamente “gente che teme di perdere il poco che ha (più in termini di diritti formali che non di opportunità reali), dai velleitari e dagli estremisti, dai furbetti beneficiari di piccole e grandi clientele di Stato, e infine da quella parte di ceto dirigente “riformista” che non ama il cambiamento in assoluto”. E, quindi, l’eroe di Flaneurotic era Matteo Renzi. Con quali ragioni rimane un mistero. O meglio probabilmente le uniche ragioni sono anagrafiche e queste ragioni hanno spinto il nostro Flaneurotic a palpitare per Renzi.
Ma Matteo Renzi ha affascinato qualcuno perché aveva un programma serio? Diceva qualcosa di veramente nuovo e sensato? Oppure dalla Leopolda in poi mischiava un po’ di giovanilismo da “big bang” e rimasticature di pensiero liberista? C’è qualcuno che può fare l’elenco delle “idee forti” di Renzi, rottamazione a parte? Renzi è piaciuto a un certo elettorato di sinistra che – come Flaneurotic – in realtà si professa vagamente di Sinistra senza esserlo mai stato realmente. Era abbastanza semplice prevederne la sconfitta misurando il residuo di Sinistra rimasto all’anemico PD. I delusi dovrebbero fare un esame di coscienza e cogliere uno strano parallelismo. Monti si dice oggi progressista e non conservatore. Nel far ciò fa mima Hayek che. molti anni or sono, scrisse il volumetto “Why I Am Not a Conservative”. Monti come Hayek dava del conservatore a chi voleva mantenere uno straccio di welfare state, un equilibrio nelle diseguaglianze e tante altre cose ancora che si definirebbero di Sinistra. Ma sono in dubbio che questo parallelismo dica qualcosa a Flaneurotic.
Ma il rimane il punto: in Europa si stanno adottando politiche neoliberiste? E queste politiche neoliberiste puntano a creare, come sosterrebbe Flaneurotic, “un libero mercato dotato di regole”? Al momento le politiche neoliberiste stanno semplicemente preparando il terreno. In altri termini: finire lo smantellamento dei principi del welfare state. Un percorso lento che – approfittando della crisi – sta procedendo piuttosto bene. Più velocemente in Grecia e in Spagna, più lentamente altrove. Più la crisi colpisce più si verificano le condizioni per cambiare politiche. Naomi Klein nel 2007 aveva scritto un interessante saggio dal titolo “Shock Economy” studiando gli effetti dell’applicazione delle teorie neoliberiste in sessanta paesi. Un saggio che anche Flaneurotic farebbe bene a leggere, giusto per scrivere cose meno folkloristiche.

L’AGENDA DELL’AUSTERITY: UNA NOTA DI PAUL KRUGMAN

04 venerdì Gen 2013

Posted by Ars Longa in Uncategorized

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austerità, Krugman, liberismo

L’AGENDA DELL’AUSTERITY

“Il tempo giusto per le misure di austerità è durante un boom, non durante la depressione”. Questo dichiarava John Maynard Keynes 75 anni fa, ed aveva ragione. Anche in presenza di un problema di deficit a lungo termine (e chi non ce l’ha?), tagliare le spese quando l’economia è profondamente depressa è una strategia di auto-sconfitta, perché non fa altro che ingrandire la depressione.

Allora come mai la Gran Bretagna (e l’Italia, la Grecia, la Spagna, ecc. NDR) sta facendo esattamente quello che non dovrebbe fare? Al contrario di paesi come la Spagna, o la California, il governo britannico può indebitarsi liberamente, a tassi storicamente bassi. Allora come mai sta riducendo drasticamente gli investimenti, ed eliminando centinaia di migliaia di lavori nel settore pubblico, invece di aspettare che l’economia recuperi?

Nei giorni scorsi, ho fatto questa domanda a vari sostenitori del governo del primo ministro David Cameron. A volte in privato, a volte in TV. Tutte queste conversazioni hanno seguito la stessa parabola: sono cominciate con una metafora sbagliata, e sono terminate con la rivelazione di motivi ulteriori (alla ripresa economica NDR).

La cattiva metafora – che avrete sicuramente ascoltato molte volte – equipara i problemi di debito di un’economia nazionale, a quelli di una famiglia individuale. La storia, pressappoco è questa: Una famiglia che ha fatto troppi debiti deve stringere la cinghia, ed allo stesso modo, se la Gran Bretagna ha accumulato troppi debiti – cosa che ha fatto, anche se per la maggior parte si tratta di debito privato e non pubblico – dovrebbe fare altrettanto!

COSA C’È DI SBAGLIATO IN QUESTO PARAGONE?

La risposta è che un’economia non è come una famiglia indebitata. Il nostro debito è composto in maggioranza di soldi che ci dobbiamo l’un l’altro; cosa ancora più importante: il nostro reddito viene principalmente dal venderci cose a vicenda. La tua spesa è il mio introito, e la mia spesa è il tuo introito.

E allora cosa succede quando tutti, simultaneamente, diminuiscono le proprie spese nel tentativo di pagare il debito? La risposta è che il reddito di tutti cala – il mio perché tu spendi meno, il tuo perché io spendo meno.- E mentre il nostro reddito cala, il nostro problema di debito peggiora, non migliora.

Questo meccanismo non è di recente comprensione. Il grande economista americano Irving Fisher spiegò già tutto nel lontano 1933, e descrisse sommariamente quello che lui chiamava “deflazione da debito” con lo slogan:”Più i debitori pagano, più aumenta il debito”. Gli eventi recenti, e soprattutto la spirale di morte da austerity in Europa, illustrano drammaticamente la veridicità del pensiero di Fisher.

Questa storia ha una morale ben chiara: quando il settore privato sta cercando disperatamente di diminuire il debito, il settore pubblico dovrebbe fare l’opposto, spendendo proprio quando il settore privato non vuole, o non può. Per carità, una volta che l’economia avrà recuperato si dovrà sicuramente pensare al pareggio di bilancio, ma non ora. Il momento giusto per l’austerity è il boom, non la depressione.

Come ho già detto, non si tratta di una novità. Allora come mai così tanti politici insistono con misure di austerity durante la depressione? E come mai non cambiano piani, anche se l’esperienza diretta conferma le lezioni di teoria e della storia?

Beh, qui è dove le cose si fanno interessanti. Infatti, quando gli “austeri” vengono pressati sulla fallacità della loro metafora, quasi sempre ripiegano su asserzioni del tipo: “Ma è essenziale ridurre la grandezza dello Stato”.

Queste asserzioni spesso vengono accompagnate da affermazioni che la crisi stessa dimostra il bisogno di ridurre il settore pubblico. Ciò e manifestamente falso. Basta guardare la lista delle nazioni che stanno affrontando meglio la crisi. In cima alla lista troviamo nazioni con grandissimi settori pubblici, come la Svezia e l’Austria.

Invece, se guardiamo alle nazioni così ammirate dai conservatori prima della crisi, troveremo che George Osborne, ministro dello scacchiere britannico e principale architetto delle attuali politiche economiche inglesi, descriveva l’Irlanda come “un fulgido esempio del possibile”. Allo stesso modo l’istituto CATO (think tank libertario americano) tesseva le lodi del basso livello di tassazione in Islanda, sperando che le altre nazioni industriali “imparino dal successo islandese”.

Dunque, la corsa all’austerity in Gran Bretagna, in realtà non ha nulla a che vedere col debito e con il deficit; si tratta dell’uso del panico da deficit come scusa per smantellare i programmi sociali. Naturalmente, la stessa cosa sta succedendo negli Stati Uniti.

In tutta onestà occorre ammettere che i conservatori inglesi non sono gretti come le loro controparti americane. Non ragliano contro i mali del deficit nello stesso respiro con cui chiedono enormi tagli alle tasse dei ricchi (anche se il governo Cameron ha tagliato l’aliquota più alta in maniera significativa). E generalmente sembrano meno determinati della destra americana ad aiutare i ricchi ed a punire i poveri. Comunque, la direzione delle loro politiche è la stessa, e fondamentalmente mentono alla stessa maniera con i loro richiami all’austerity.

Ora, la grande domanda è se il fallimento evidente delle politiche di austerità porterà alla formulazione di un “piano B”. Forse. La mia previsione è che se anche venissero annunciati piani di rilancio, si tratterà per lo più di aria fritta. Poiché il recupero dell’economia non è mai stato l’obiettivo; la spinta all’austerity è per usare la crisi, non per risolverla. E lo è tutt’ora.

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