I temi del nazionalismo e dell’identità nazionale vengono puntualmente riesumati quando si aprono crisi profonde (economiche e sociali) all’interno delle nazioni. La retorica patriottica sembra avere la capacità (illusoria) di poter rappresentare un collante nell’era della fine delle ideologie e per opporsi alle pretese di superare il concetto di nazione in una super-nazione europea. La riflessione sul nazionalismo – però – non può ridursi alla enunciazione di slogan. Occorrerebbe in primo luogo riflettere attentamente sui guasti e sulla sostanziale aggressività che il nazionalismo ha saputo provocare. Per questo motivo credo interessante proporvi un articolo scritto da George L. Mosse nel 1990 e che fu pubblicato in quell’anno sulla rivista Prometeo. Mi pare ci siano molti spunti di riflessione importanti. Ars Longa
“Era tempo che facessimo passare una legge per ripristinare onorificenze e decorazioni”, pare che abbia detto un alto funzionario della Repubblica federale tedesca nel 1955, “altrimenti nelle occasioni ufficiali si fa fatica a distinguere gli ospiti d’onore dal capocameriere”. E se in gran parte del mondo al giorno d’oggi onorificenze e decorazioni non vengono considerate indispensabili per la sovranità nazionale, ogni nazione deve possedere una bandiera e un inno nazionale. Mentre tutti gli stati di nuova indipendenza adottarono rapidamente i loro inni dopo la Seconda Guerra Mondiale, l repubblica federale tedesca si trovò priva di inno nazionale. A prima vista, il Deutschlandlied (l’inno tedesco) aveva un passato senza macchia; dopotutto era stato adottato come inno nazionale dalla Repubblica di Weimar. Era però rimasto in uso durante il Terzo Reich. C’era bisogno anche di una nuova bandiera, visto che il Terzo Reich aveva utilizzato la bandiera nera bianca e rossa della Germania imperiale. Ma c’era a disposizione la bandiera nera rossa e oro della Repubblica di Weimar, anche se nel dibattito al Bundestag del 1949 sull’adozione della bandiera qualche deputato espresse una certa nostalgia per la vecchia bandiera sotto la quale i tedeschi si erano battuti ed erano morti nelle due guerre mondiali. La discussione, tuttavia, si concluse quasi subito, e la nuova bandiera entrò a far parte della legislazione del paese, perché, secondo l’espressione di uno dei deputati, i simboli nazionali erano tutto quello che rimaneva a una Germania devastata, Ci vollero altri tre anni per giungere a una decisione in merito all’inno nazionale. I primi versi del Deutschlandlied, quelli che avevano suscitato più risentimento. e cioè “Deutschland, Deutschland, über alles in der Welt!” vennero soppressi , e fu mantenuto soltanto il terzo verso, che invoca “Einihkeit, und Recht und Freiheit” (unità, e diritto e libertà). Il tentativo di fare del tutto a meno di un inno nazionale aveva causato continui imbarazzi: e in effetti la decisione di abolire tutti gli inni nazionali alle Gare Europee di atletica leggera del 1954, sostituendoli con fanfare di trombe, non venne più ripresa. Di un inno c’era bisogno, e nel 1949 il primo Bundestag aveva aperto la sessione intonando la cantata di Mozart “Brüder, reicht mir die Hande zum Bunde” (Fratelli, datemi la mano a suggellare il patto). Tuttavia, la tradizione non poteva essere ignorata. La nazione moderna, che si è sempre presentata come radicata nella storia, non può acquisire nuovi simboli all’improvviso. Non era stato così, tuttavia, al passaggio dal XVIII al XIX secolo. Gli inni nazionali ebbero origine, insieme a una nuova coscienza nazionale, all’epoca della Rivoluzione francese. Anche se alcuni brani, come “God save the King”, risalgono all’inizio del XVIII secolo, fu solo a quell’epoca che essi divennero inni nazionali. In gran parte vennero forgiati dalle guerre combattute dalla Rivoluzione e da quelle napoleoniche, o vennero letti alla luce di questi conflitti che rappresentarono una chiara rottura con il passato. La nazione moderna alla sua nascita è una nazione in armi. Gli eserciti di cittadini, costituiti da volontari e coscritti in Francia, Prussia, e nella stessa Inghilterra, mobilitarono per la prima volta ingenti masse di uomini. Questi eserciti diedero loro la sensazione di partecipare al destino della nazione, e, insieme, una disciplina. L’inno nazionale è parte integrante di una intera rete di simboli con cui la nazione volle presentarsi al proprio popolo per impegnarne in modo compatto la fedeltà. La bandiera, l’inno, e la maggior parte delle feste nazionali, hanno sempre conservato qualcosa della nazione in armi, anche in tempo di pace. Studiare gli inni nazionali significa dunque esaminare come la guerra venne incorporata entro gran parte dei nazionalismi, i quali, a loro volta, furono uno dei ponti attraverso cui l’accettazione della guerra divenne un fattore dato quasi per scontato nella vita moderna. Gli inni nazionali che nacquero in questo periodo riflettono molti dei temi della nuova coscienza nazionale, derivati in larga misura dalle guerre rivoluzionarie e napoleoniche; la conquista francese e la difesa inglese, il trauma dell’occupazione della Prussia e il suo entusiasmo quando infine entrò nella lotta. Qualche riferimento alla guerra e alla morte in battaglia è presente nella maggior parte degli inni nazionali, anche se, come vedremo, vi sono delle eccezioni. Spicca anche il tema della fratellanza o del cameratismo: gran parte dei volontari, ma anche molti coscritti, avevano fatto in queste guerre l’esperienza di una comunità di tipo nuovo, tenuta insieme dal pericolo comune e da un comune obiettivo. La nazione come speranza nel futuro è implicita in tutti questi temi, ma mai espressa in termini espliciti salvo che nel Deutschlandlied, che dipinge un mondo sano e felice fatto di vino, donne e canzoni.
Furono guerre combattute da giovani, e le nazioni si inorgoglivano di una giovanile virilità. Solo di rado si trovano dei riferimenti alla giovinezza nei testi degli inni nazionali, contrariamente alla poesia nazionalistica più popolare. Ma la giovinezza è presente indirettamente o per associazione nell’occasionale menzione della virilità, nonché nel ritmo della musica. Vedremo come il Deutschlandlied, futuro inno nazionale che non menziona la gioventù neppure implicitamente, finì per essere strettamente associato alla morte dei giovani in battaglia.
La virilità giovanile fa parte dell’immagine guerriera della nazione assediata dai nemici. Quest’immagine viene evocata in termini quasi estatici dai poeti delle guerre di liberazione tedesche, dai quali sentiamo spesso parole come Männerstreit, Männerschlacht, Männerehre (lotta virile, battaglia virile, onore virile). Certamente, lo stesso ideale è implicito nei riferimenti ai “valorosi e arditi” figli della Svezia, o in “Lituania terra d’eroi”, per non citare che due inni nazionali. I temi della giovinezza e del cameratismo non trovano posto negli inni che hanno al centro un sovrano: né “God save the King” né “Heil dir im Siegerkranz Retter des Vaterlands” (il vecchio inno austriaco) esprimono sentimenti del genere. Sarebbero stati del tutto fuori tema già prima che “God save the King” divenisse “God save the Queen” con l’ascesa al trono della Regina Vittoria. A volte tuttavia anche gli inni reali contengono il tema dominante degli inni nazionali ed evocano la nazione in guerra, pur senza richiedere il sacrificio personale.
Le guerre che videro il sorgere della moderna coscienza nazionale sottolinearono inoltre la differenza tra la morte privata e il sacrificio per la nazione. I soldati mercenari avevano dato per scontata la loro morte, facendo del proprio meglio per evitare di essere uccisi o feriti. Ma la Marsigliese dice orgogliosamente che i suoi giovani eroi caduti in battaglia risorgeranno sul sacro suolo della Francia. Il soldato entra così a far parte di un’infinita catena di vite che supera la morte, fino alla sua resurrezione. In molte delle canzoni della Rivoluzione francese la morte per la patria viene descritta in analogia con gli ideali cristiani come un martirio in armi. La poesia scritta da Theodor Koerner durante le guerre di liberazione tedesche, dove la felicità potrà essere ottenuta solo grazie alla morte sacrificale, è un buon compendio di ciò che la nazione riteneva di dover chiedere ai suoi cittadini. Vengono in mente molti esempi di inni nazionali che esprimono una richiesta del genere: i Belgi nella Brabançonne 1830) offrono alla patria il braccio, il cuore, il sangue; gli Italiani nell’Inno di Mameli (1847) son pronti alla morte; i Messicani tanto per cambiare continente – combatteranno fino all’ultimo respiro (1850); gli Svedesi sono decisi a vivere e morire per il loro paese (1844), mentre gli Svizzeri hanno due inni nazionali: l’uno, adottato nel 1843, è pastorale e pacifico, mentre l’altro, che risale al 1811, dichiara che solo chi muore per la patria è libero. Tornerò in seguito sugli inni di carattere più pacifico e pastorale. Grosso modo, sono limitati alle nazioni minori, mentre gli stati più potenti uniscono l’esaltazione della morte in battaglia a un atteggiamento difensivo o offensivo nei confronti di presunti nemici. La Marsigliese, che ebbe origine in guerra, chiede nel ritornello che l’impuro sangue del nemico scorra lungo il cammino degli implacabili eroi della rivoluzione. Il Deutschlandlied non ha nulla della voluttà di battaglia di Theodor Koerner, ma, come è tipico di molti inni nazionali, prende un atteggiamento difensivo che può tuttavia tradursi in una sfida.
Manca nel Deutschlandlied il legame tra nazione e morte che dà un’impronta guerresca a gran parte degli inni. Ma in questo caso, a dimostrarsi più importante della realtà fu il mito, con le sue due primo strofe: “Deutschland, Deutschland über alles, über alles in der Welt”. Persino questi versi in origine erano rivolti contro i sovrani tedeschi che si opponevano all’unificazione, e non contro qualche potenza straniera, nemmeno la Francia. E tuttavia l’ostinata insistenza su tutto ciò che è tedesco, la sua incondizionata esaltazione, rese relativamente facile interpretare il brano in senso aggressivo. Ernst Moritz Arndt, nella fase iniziale delle guerre di liberazione tedesche, aveva ancora definito la libertà della Germania libertà per tutto il genere umano, e, come espressione concreta di questo sentimento, la bandiera polacca accompagnò quella tedesca al castello di Hambach nel 1832 alla celebrazione della prima festa nazionale tedesca. Ma già Theodor Koerner e Max von Schenkendorf, i più popolari poeti delle guerre di liberazione, che lasciarono altresì la propria impronta su tutto il futuro nazionalismo, restrinsero la propria idea di libertà alla sola Germania. Gli inni nazionali, nel complesso, riflettono una visione più limitata di questo tipo, anche se la Marsigliese, da principio – e malgrado l’esplicito riferimento ai Francesi – poteva ritenersi applicabile a tutti i popoli. Il Deutschlandlied è esempio di una visione nazionale più angusta e ciò rese più semplice per i nazionalisti tedeschi, a dispetto del testo vero e proprio, di collegare il primo verso alla morte sacrificale in battaglia.
Già nell’Impero guglielmino il Deutschlandlied era stato reinterpretato dai conservatori in un’ottica più aggressiva, e letto alla luce dell’onnipresente poesia delle guerre di liberazione. Ma di importanza decisiva nell’associare il futuro inno nazionale con la morte in battaglia fu il famoso Bollettino dell’Esercito Tedesco dell’11 novembre 1914: esso affermava che ad ovest della cittadina di Lange-marck reggimenti di giovani avevano preso d’assalto con successo la prima linea delle trincee inglesi cantando “Deutschland, Deutschland über alles”. Questa battaglia rappresentò il battesimo del fuoco per un reggimento che avrebbe dovuto essere costituito da migliaia di studenti e da molti ex membri del Movimento Giovanile Tedesco (ma in realtà la maggior parte della truppa era assai più anziana), dando vita nell’euforia dei primissimi mesi della guerra a questa immagine della gioventù che prima si arruola volontariamente e poi si sacrifica con gioia. La battaglia di Langemarck divenne un simbolo del trionfo dell’eroica gioventù, e sarebbe del tutto corretto parlare di un vero e proprio culto di Langemarck nella Germania reduce dalla sconfitta nella prima guerra mondiale. Joseph Magnus Wehner, un romanziere di tendenze conservatrici, sintetizzò nel 1932 il mito di Langemarck che fece del Deutschlandlied una parte integrante della rigenerazione della Germania per mezzo della guerra, e lo fece in un discorso pronunciato su richiesta della più grande organizzazione studentesca tedesca e letto in pubblico in tutte le università del paese. “Prima che il Reich si coprisse il volto nella vergogna e nella sconfitta”, egli disse, “quelli di Langemarck cantarono. Andarono a morire cantando! cantarono correndo, giovani studenti che correvano verso la propria distruzione di fronte alle soverchianti forze e ai fucili crepitanti dei nemici”. Morirono, egli disse, con il Deutschlandlied sulle labbra, “… e nella canzone che li accompagnò nella morte, essi sono risorti…” Di certo, si tratta di immagini di grande effetto, che strumentalizzarono una canzone che il Presidente Ebert aveva ritenuto tanto pacifica da poterla adottare come inno nazionale della Repubblica di Weimar mutamenti nel modo in cui gli inni nazionali sono stati percepiti nel loro passaggio attraverso la storia non devono essere dimenticati leggendone il testo. Non solo il Deutschlandlied, ma la stessa Marsigliese subì un cambiamento del genere. Quando la Marsigliese tornò ad essere di nuovo, nel 1879, l’inno nazionale francese, la si interpretò come un canto di riconciliazione nazionale in attesa di una futura vittoria sulla Germania. Certo né i Borboni né Napoleone III avevano visto la Marsigliese in quest’ottica, e l’avevano bandita in quanto inno rivoluzionario. La sconfitta e il suo uso nella Comune parigina avevano causato questo cambiamento. Ma in conseguenza dell’adozione ufficiale della Marsigliese i militanti operai sentirono di non poterla più usare e chiesero a un operaio socialista, Pierre Degeyter, di scrivere una nuova canzone sulla base di un motivo composto da Eugène Pottier, membro della Prima Internazionale. L’Internazionale nacque in reazione all’uso ufficiale della Marsigliese, e fece la sua prima prova nel 1896 quando gli operai si scontrarono con i nazionalisti a Lilla – ma questa volta furono i nazionalisti a cantare la Marsigliese, e gli operai l’Internazionale.
La Marsigliese come il Deutschlandlied finì per essere strumentalizzato dalla destra politica. Per quanto ciò possa essere stato in contrasto con gli impulsi e le intenzioni originarie, quello del militante nazionale rimane il tema principale degli inni nazionali, malgrado i mutamenti intervenuti nella loro ricezione col passare del tempo. La prevalente preoccupazione per la guerra e la difesa, nella grande maggioranza degli inni nazionali, rimase identica, insieme con l’angolo di visuale circoscritto e la nuova concezione della morte, a prescindere dal carattere festoso o marziale della musica.
Il fascismo italiano e il nazionalsocialismo portarono al culmine le implicazioni inerenti alla natura degli inni nazionali. Essi istituirono quello che si può chiamare un vero e proprio culto degli inni che era parte del culto della nazione. L’Italia fascista lo fece in maniera formale, i nazionalsocialisti in modo più informale. Forse fu la tradizione operistica italiana a incoraggiare ciascuna organizzazione fascista ad avere il suo inno, anche se subordinati a Giovinezza, il principale inno fascista. Pietro Mascagni, più noto per la sua Cavalleria Rusticana, scrisse gli inni per i lavoratori e per i corpi elitari della gioventù fascista; così come Giuseppe Blanc, il compositore di Giovinezza aveva scritto delle operette; anzi, la melodia di Giovinezza era già stata usata nella sua “Festa dei fiori”. All’inizio del secolo, Giovinezza era stata una popolare canzone studentesca creata da Blanc e dal giovane poeta Nino Oxilia che venne ucciso nella prima guerra mondiale. Come tale, era un omaggio alla giovinezza e alla bellezza, uno sguardo retrospettivo rivolto a una vita di studio e di amori che aveva ceduto il passo alla durezza della vita – una banale canzone studentesca simile a quelle che esistevano allora in quasi tutti i paesi. Da allegra canzonetta studentesca Giovinezza divenne l’inno ufficiale del partito fascista – suonato accanto all’inno tradizionale in occasione – attraverso gli Alpini, le truppe da montagna italiane, che la portarono con sé nella guerra di Libia prima che divenisse la canzone ufficiale degli “Arditi”, le truppe d’assalto italiane nella prima guerra mondiale. Queste truppe di prima linea aggiunsero al testo di Giovinezza un nuovo verso in cui si asserisce che la gioventù non teme la morte, la preferisce al disonore, ed è pronta a morire con il sorriso sulle labbra affrontando il nemico. Questo verso aggiunto dagli “Arditi” rese la canzone adatta a diventare l’inno fascista: gioventù, bellezza e morte erano infatti i temi basilari della mitologia fascista. Così anche l’Inno dei balilla manda i giovani fascisti incontro alla morte cantando. Allo stesso modo, si diceva che i cittadini-soldati della Rivoluzione avessero combattuto al canto della Marsigliese, e il fior fiore della gioventù tedesca, come abbiamo visto, morì con il Deutschlandlied sulle labbra. All’interno della mitologia del nazionalismo, questo tipo di inni nazionali non solo esaltava la morte in guerra nel testo, ma veniva messo alla prova in battaglia.
L’Horst Wessell Lied, usato come inno nazionale ufficioso durante il Terzo Reich, alla pari con d Deutschlandlied, non necessitava di alcuna trasformazione. I temi rilevanti erano presenti in esso fin dall’inizio: i caduti in guerra che marciano nei ranghi dei vivi, l’ideale del cameratismo, la distruzione del nemico – e anche se il motivo della giovinezza non viene espresso in questo caso nel testo, è ugualmente implicito nel ritmo.
Questi inni fascisti e nazionalsocialisti fanno uso delle stesse forme musicali della maggior parte degli inni nazionali che abbiamo discusso. Quando Alfred Rosenberg disse al Festival Nazionale dei Cori (Sängertag) del 1935 che la musica nazionalsocialista non doveva essere sentimentale – espressione di una mascolinità debole e incompleta, secondo la sua formula – ma facile, semplice ed eroica, non faceva che ripetere gli ideali adottati dalla musica della maggior parte degli anni nazionali. Senza dubbio, l’inno italiano, e molti inni latino-americani di ispirazione italiana, mostrano delle influenze operistiche, ma gli altri sono delle marce su ritmi di chiesa. Qualunque sia la forma musicale scelta, tutti gli inni nazionali sono legati a un ritmo chiaro ed espressivo come fattore unificante della musica. La natura di tale ritmo dipende principalmente da due elementi: se si riteneva che l’inno dovesse essere cantato soprattutto marciando o da fermi; e in entrambi i casi la gente doveva essere in condizioni di unirsi al canto. La Marsigliese fu il primo inno a usare un ritmo di marcia, in opposizione ad inni precedenti come “God save the King”, che prendevano a modello gli inni cristiani. L’età del nazionalismo è anche l’età della politica di massa, e questo fatto portò all’introduzione del ritmo in tutte le cerimonie – marce, parate, festival – allo scopo di trasformare una massa disordinata in una folla disciplinata. All’inizio del XIX secolo, mentre si tenevano i festival rivoluzionari, e la Marsigliese aveva intrapreso la propria marcia trionfale attraverso tutta Europa, il poeta tedesco Goethe scrisse che il ritmo ha in sé qualcosa di magico che ci spinge a credere di essere parte del sublime. Quasi profeticamente Goethe collegò il ritmo con il bisogno, avvertito da molti uomini e donne nell’epoca della Rivoluzione francese e della rivoluzione industriale, di sentirsi sotto i piedi un terreno sicuro, di assimilare alle proprie vite un pezzetto di eternità. Unirsi alla “liturgia nazionale”, cantare gli inni nazionali, aveva proprio questo significato: sublimarsi nella più vasta comunità della nazione. Dopo la nascita della Marsigliese la maggior parte degli inni nazionali venne eseguita al tempo allegretto con fuoco, che fossero favorevoli o contrari alla Rivoluzione francese: in tal modo, ad esempio, veniva suonato il Preussen Lied (Canto Prussiano). Gli inni nazionali fin qui discussi vennero scritti e composti durante o poco dopo la Rivoluzione francese. Si tratta essenzialmente di inni di autorappresentazione nazionale, anche se, a volte, menzionano un sovrano. Ma alcuni inni molto autorevoli ebbero origine prima della Rivoluzione, anche se soltanto nell’età rivoluzionaria vennero adottati come inni nazionali. Si dovevano cantare fermi in piedi piuttosto che in movimento, e recano l’impronta degli inni ecclesiastici. “God save the King” fu il più insigne di questi inni, e superò in popolarità la Marsigliese come modello per altri inni nazionali: Austria, Svezia e Svizzera sono solo alcune fra le nazioni che ne adottarono lo stile e la musica. E contrariamente alla Marsigliese esso non venne cantato per la prima volta andando in battaglia ma nel 1715, nel Drury Lane Theatre, in onore del re Giorgio II.
E tuttavia anche “God save the King” divenne popolare attraverso la guerra: fu quando il re si distinse contro i francesi e quando nel 1746 respinse l’invasione del pretendente Stuart. Mentre il primo verso dell’inno ha un tono di preghiera, il secondo chiede a Dio di disperdere i nemici del Re, “… e farli cadere; confondere la loro politica – i loro loschi stratagemmi”. La musica che accompagna le parole, e che divenne tanto popolare in tutta Europa come inno rivolto al sovrano, si anima ogni qual volta il re è chiamato a sconfiggere i suoi nemici o quando viene descritta la sua sovranità.
Inoltre, in questo genere di inni, in opposizione a quelli che glorificano la nazione piuttosto che il sovrano, c’è spesso uno iato tra le parole aggressive e la musica solenne. Il re Cristiano di Danimarca, ad esempio, nell’inno nazionale danese (circa 1780), vibra la spada con tanta efficacia che essa trapassa “l’elmo gotico e il cervello” e lo fa seguendo il ritmo maestoso, appena modificato, di “God save the King”. E tuttavia in Inghilterra “God save the King” non risultò soddisfacente in funzione del crescente spirito militante durante la crisi delle guerre napoleoniche. “Rule Britannia, Rule the Waves” era stato pubblicato da James Thomson nel 1729 allo scopo di rinfocolare i sentimenti dell’opinione pubblica contro la presunta “politica-di-pace-ad-ogni-costo” del governo verso la Spagna: divenne così un secondo inno nazionale, militante e trionfalistico. Allo stesso tempo, la figura di John Bull venne usata come simbolo del popolo britannico nella sua lotta contro la Francia. La fame di simboli che incarnassero lo spirito dell’intera nazione, invece di far rappresentare la nazione a un singolo sovrano, trovò spazio anche nelle nazioni il cui sovrano dimostrò di possedere una stabilità. Ma, come abbiamo visto, tale simbologia fu di norma – anche se non sempre – combinata con uno spinto guerresco.
Non c’è stato dunque alcun inno nazionale che rappresentasse una nazione completamente in pace? Gli inni delle potenze minori furono in grado di concentrarsi su un’analogia tra la nazione e la natura, invece di focalizzarsi su guerre offensive o difensive. Il “Salmo Svizzero”, ad esempio, è un inno di questo tipo, in contrasto con il secondo inno svizzero che ho già menzionato, mentre l’inno nazionale del Liechtenstein dipinge questo paese come una contrada di tranquilla felicità. Il “Salmo Svizzero” invita gli Svizzeri a pregare quando l’alba si leva sulle Alpi, e anche altri inni di carattere pastorale, come quelli di Cecoslovacchia, Finlandia e Norvegia, si concentrano sulla realtà del paesaggio natio. Alla medesima tradizione si volsero alcune nazioni dopo la seconda guerra mondiale allo scopo di purificare il proprio passato. Il nuovo inno nazionale austriaco, cantato su una musica derivata da una delle “Cantate Massoniche” di Mozart, si apre con “Terra di montagne, Terra di ruscelli, Terra di campi”. Theodor Heuss, il primo presidente della Repubblica Federale, propose (invano) un nuovo inno nazionale in cui la Germania appariva una terra di fede, speranza e amore, unita nella pace. Questi inni, dunque, non hanno nulla di guerresco, e non menzionano neppure la necessità di difendere la patria contro gli aggressori.
Altre canzoni, che appaiono orientate verso il futuro e contengono un importante elemento utopico fanno un ulteriore passo in avanti: lodano la pace contro la guerra. Tuttavia, non si tratta propriamente di inni nazionali, ma di canzoni del movimento dei lavoratori. E però esse assolvono una funzione identica a quella degli inni nazionali, con l’intento di dare ai lavoratori il senso di un’identità collettiva. Certamente, il testo di molte di queste canzoni, compresa l’Internazionale, ha uno slancio simile a quello degli inni nazionali. Esse sono fondamentalmente dirette contro un nemico: i ricchi, gli sfruttatori, gli oppressori. E in più molte di queste canzoni vennero cantate su melodie patriottiche. Eppure, malgrado la reale e potenziale aggressività di molte canzoni operaie, il loro tono è fondamentalmente differente da quello della maggior parte degli inni nazionali. Ad esempio, la più popolare canzone operaia tedesca, la “Marsigliese dei lavoratori” (1864) -“inno nazionale del movimento operaio nella Germania imperiale – dapprima incita a impegnare gli innumerevoli nemici in una lotta piena di rischi, ma poi continua dicendo che non invita all’odio contro i ricchi, ma vuole uguali diritti per tutti. L’Internazionale che chiama i lavoratori a conquistare i propri diritti con la forza, termina poi dicendo che quando ciò avverrà il sole brillerà per sempre. Questi appelli a un mondo migliore e pacifico, sono assenti nella gran parte degli inni nazionali. La nazione guarda all’indietro, non in avanti; è la storia e non una visione utopica a darle l’immutabilità di cui ha bisogno per frenare il passo accelerato del tempo. Quando ad esempio nel Deutschlandlied le donne tedesche, la fedeltà tedesca e le canzoni tedesche sono evocate come ideali futuri, vengono immediatamente collegate alla storia: devono infatti recuperare la propria antica nobiltà. Il tema della rigenerazione è presente tanto nelle canzoni operaie che negli inni nazionali, ma nei primi l’analogia è in generale con la primavera, con un risveglio in un mondo migliore; negli altri essa si realizza attraverso il paesaggio immutabile o gli atti di eroismo in guerra. Dopo la seconda guerra mondiale, per quanto ne so, solo l’inno della Repubblica democratica tedesca riprese la forma e i temi di queste canzoni operaie.
E tuttavia nessuno degli inni nazionali di nuova adozione nell’Europa postbellica, compresi quelli dell’Unione Sovietica, continuò dopo la seconda guerra mondiale a collegare nel modo ormai tradizionale la coscienza nazionale alla guerra. Certamente questo mutamento ha ben poco a che fare con le concrete scelte politiche, ispirate ad atteggiamenti guerreschi che avrebbero potuto rendere l’auto-rappresentazione tradizionale della nazione ancor più appropriata dopo il 1945 di quanto non lo fosse prima. Al contrario, ciò sembra dovuto al mutato atteggiamento verso la morte in guerra: la paura della morte aveva sostituito ogni pensiero di gloria e di resurrezione, in una visione apocalittica evocata da una guerra che non aveva fatto alcuna distinzione tra civili e soldati, nonché dall’uso della bomba atomica. Ad esempio, le nazioni dell’Europa occidentale e centrale non riportarono in patria in pompa magna alcun milite ignoto a far compagnia all’eroe della precedente guerra. La funzione dei simboli nazionali non era più quella di incitare gli uomini ad andare alla guerra e a sacrificare la vita, ma invece quella di mitigare la paura della morte e proiettare nel futuro l’idea di un mondo sano, felice e in pace. La guerra cessò di essere glorificata come parte dell’autorappresentazione della nazione, e venne mascherata e travestita, tenendola il più possibile distante dalla vita degli individui. Con tutto ciò, gli inni nazionali più importanti e diffusi non hanno mai negato la propria origine dalla nazione in armi e, come abbiamo visto, anche un inno nazionale scaturito da una tradizione differente come “God save the King” contiene passaggi guerreschi. Resta da stabilire fino a che punto questa autorappresentazione della nazione, che è stata tanto coerente per un lungo periodo di tempo, abbia influenzato l’atteggiamento generale verso la morte e la guerra. Certo è che per più di un secolo intere generazioni hanno dato per scontato che la nazione richiedesse il sacrificio della sua gioventù, accompagnandolo con canti e poesie.
George L. Mosse
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