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Strategia per una riconquista (di Serge Halimi)

17 martedì Set 2013

Posted by Ars Longa in Economia

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capitalismo, Economia, euro, Serge Halimi, welfare state

L’inevitabile domanda sul “che fare?” continuaa risuonare in tutti i discorsi. Oramai le proposte si sprecano. Alcune ragionevoli, altre poco comprensibili, altre ancora epidermicamente pericolose, Questo articolo di Serge Halimi comparso su Le Monde Diplomatique riassume bene alcuni spunti e alcuni problemi del “che fare”. Meriterebbe una approfondita discussione, soprattuto per le linee indicate come strategia. Ma non solo anche le evidenti difficoltà del pensiero critico mettono in evidenza la confusione e la mancanza di analisi serie. Queste pecche portano le persone a credere che opporsi al capitalismo sia “un tantinello complicato” e a farle optare per qualche strategia di corto respiro o a cercare soluzioni nell’economista di passaggio che lavora per riempirsi le tasche.

Sono trascorsi cinque anni dal fallimento di Lehman Brothers, il 15 settembre 2008. La legittimità del capitalismo come nodo di organizzazione della società ha subito un duro colpo; le sue promesse di prosperità, di mobilità sociale, di democrazia non illudono più. Ma il grande cambiamento non si è verificato. Le messe in discussione del sistema si sono succedute senza scuoterlo. Il prezzo dei suoi insuccessi è stato pagato persino con l’annullamento di una parte delle conquiste sociali che gli erano state strappate. «I fondamentalisti del mercato si sono sbagliati su quasi tutto, e tuttavia dominano la scena politica più che mai», constatava l’economista americano Paul Krugman già quasi tre anni fa. Tutto sommato, il sistema tiene, anche con il pilota automatico. Non è un complimento per i suoi avversari. Che cosa è successo? E che fare?
La sinistra anticapitalista rifiuta l’idea di una fatalità economica poiché crede che ci siano delle volontà politiche a organizzarla. Ne avrebbe dovuto dedurre che il tracollo finanziario del 2007-2008 non avrebbe aperto una via trionfale ai suoi progetti. Il precedente degli anni ’30 forniva già dei suggerimenti: in funzione delle situazioni nazionali, dei patti sociali e delle strategie politiche, una stessa crisi economica può sfociare in esiti tanto diversi quanto la salita al potere di Adolf Hitler in Germania, il New Deal negli Stati Uniti, il Fronte Popolare in Francia, e niente di altrettanto rilevante nel Regno Unito. Molti anni dopo, e ogni volta con qualche mese di intervallo, Ronald Reagan fece il suo ingresso alla Casa Bianca e Mitterrand all’Eliseo; Nicolas Sarkozy fu battuto in Francia e Barack Obama rieletto negli Stati Uniti. Vale a dire che la fortuna, il talento, la strategia politica, non sono variabili accessorie in grado di sostituire la sociologia di un paese o lo stato della sua economia.
La vittoria dei neoliberisti, a partire dal 2008, deve molto al soccorso della cavalleria dei paesi emergenti, poiché il «rovesciamento del mondo» è stato anche l’ingresso nella danza capitalista dei grossi contingenti produttori e consumatori cinesi, indiani, brasiliani. Questi sono serviti da esercito di riserva del sistema nel momento in cui sembrava essere in agonia. Solo negli ultimi dieci anni, la parte della produzione mondiale dei grandi paesi emergenti è passata dal 38% al 50%. La nuova fabbrica del mondo è diventata allo stesso tempo uno dei suoi principali mercati: dal 2009 la Germania esporta più in Cina che negli Stati Uniti.
L’esistenza delle «borghesie nazionali» – e l’attuazione di soluzioni nazionali — si scontra dunque con il fatto che le classi dirigenti del mondo intero hanno ormai interessi comuni. A meno di restare mentalmente ancorati all’anti-imperialismo degli anni ’60, come prevedere ancora, per esempio, che una risoluzione progressista dei problemi attuali possa avere per artefici le élite politiche cinesi, russe o indiane, affariste e venali quanto le loro omologhe occidentali?
Tuttavia il riflusso non è stato universale. «L’America latina, faceva notare tre anni fa il sociologo Immanuel Wallerstein, durante il primo decennio del XXI secolo, è stata la succes-story della sinistra mondiale. È così per due motivi: il primo e più citato: perché i partiti di sinistra o di centro sinistra hanno vinto una successione impressionante di elezioni. E poi: perché per la prima volta i governi latinoamericani hanno preso le distanze dagli Stati Uniti in maniera collettiva. L’America latina è diventa una forza geopolitica relativamente autonoma

Certamente l’integrazione regionale, che prefigura per i più audaci il «socialismo del XXI secolo», per gli altri individua uno dei più grandi mercati mondiali. Il gioco rimane nondimeno più aperto all’interno della vecchia sfera d’influenza degli Stati Uniti che all’interno dell’ectoplasma europeo. E se l’America latina ha conosciuto sei tentativi di colpi di Stato in meno di dieci anni (Venezuela, Haiti, Bolivia, Honduras, Ecuador e Paraguay), è forse perché i cambiamenti politici cui hanno dato impulso le forze di sinistra vi hanno realmente minacciato l’ordine sociale e trasformato le condizioni di esistenza delle popolazioni. Ciò ha altresì dimostrato che esiste certamente un’alternativa, che non tutto è impossibile, ma che per creare le condizioni del successo bisogna mettere in atto delle riforme strutturali, economiche e politiche le quali rimettano in moto gli strati popolari che l’assenza di prospettiva aveva imprigionato nell’apatia, nel misticismo o nella mera sopravvivenza. È forse anche in questo modo che si combatte l’estrema destra.
Trasformazioni  strutturali,  sì, ma quali?  I  neoliberisti  hanno  radicato così bene l’idea che non ci fossero «alternative» che ne hanno convinto anche i loro avversari, al punto che questi dimenticano anche le proprie proposte… Ricordiamone alcune tenendo a mente che oggi più esse sembrano  ambiziose,  più  è  importante adottarle senza aspettare. E senza mai dimenticare che la loro eventuale drasticità deve essere messa in relazione alla violenza dell’ordine sociale che esse vogliono distruggere.
Come   contenere   quest’ordine   e come sconfiggerlo in seguito? Lo sviluppo della parte del settore pubblico, e anche quella delle gratuità, risponderebbe a questo doppio obiettivo. L’economista André Orléan ricorda che durante il XVI secolo «la terra non era un bene che si poteva barattare, ma un bene collettivo e non negoziabile e questo spiega la vigorosa resistenza contro la legge sulla recinzione dei pascoli comunali». E aggiunge: «Stessa cosa oggi con la mercificazione della vita. Un braccio o del sangue ora non ci appaiono come merci, ma che ne sarà domani?».

Per contrastare quest’offensiva, forse converrebbe definire democraticamente alcuni bisogni elementari (alloggio, cibo, cultura, comunicazioni, trasporti), farli finanziare dalla collettività e metterli a disposizione di tutti. Addirittura, il sociologo Alain Accardo raccomanda di «estendere rapidamente e continuativamente il servizio pubblico fino a farsi carico gratuitamente di tutti i bisogni fondamentali a misura della loro evoluzione storica, cosa non concepibile economicamentte se non mediante la restituzione alla collettività di tutte le risorse e ricchezze prodotte dagli sforzi di tutti e necessarie all’assistenza sociale». Così, piuttosto che mettere la domanda in condizione di far fronte all’offerta aumentando i salari, si tratterebbe di acquisire quest’ultima al socialismo e di garantire a ciascuno delle nuove prestazioni in natura.
Ma come evitare di passare da una tirannia dei mercati a un assolutismo di Stato? Cominciamo, ci dice il sociologo Bernard Friot, a generalizzare il modello delle conquiste popolari che funzionano e che sono sotto i nostri occhi: il sistema previdenziale per esempio, contro il quale si accaniscono i governi di ogni colore. Un «fattore di emancipazione già esistente» che, grazie al principio della contribuzione, mette a disposizione della società una parte importante della ricchezza, permette di finanziare le pensioni, le indennità di malattia, i sussidi dei disoccupati. Diversa dall’imposta percepita e spesa dallo stato, la contribuzione non è oggetto di accumulazione e, agli inizi, fu gestita principalmente dai salariati stessi. Perché non spingersi oltre?

Volutamente d’attacco, un tale programma comporterebbe un triplo vantaggio. Politico innanzitutto: benché suscettibile di riunire una larghissima coalizione sociale, esso non è manipolabile da parte dei liberisti o dell’estrema destra. Ecologico: esso evita un rilancio keynesiano che, prolungando il modello esistente, finirebbe con «l’iniettare una somma di denaro nei conti in banca per essere poi riversata nel consumo di beni di mercato indotto dalla pubblicità (!)».
Inoltre privilegia bisogni che non saranno soddisfatti dalla produzione di oggetti inutili in quei paesi dove i salari sono bassi, con tanto di trasporto nei container da un capo all’altro della Terra. E per finire, un vantaggio democratico: la definizione delle priorità collettive (ciò che sarà gratuito, e ciò che non lo diventerà) non sarà più riservata a eletti, ad azionisti o a mandarini intellettuali, tutti provenienti dagli stessi ambienti sociali. Un approccio di questo tipo è urgente. Allo stato attuale dei rapporti di forza sociali del mondo intero, la robotizzazione accelerata dell’impiego industriale (ma anche dei servizi) rischia infatti di creare al contempo una nuova rendita per il capitale (riduzione del «costo del lavoro») e una disoccupazione di massa sempre meno indennizzata. Ogni giorno Amazon o i motori di ricerca dimostrano che centinaia di migliaia di clienti affidano ai robot la scelta delle uscite, dei viaggi, delle letture, della musica che ascoltano. Librerie, giornali, agenzie di viaggio ne pagano già il prezzo. «Le dieci più grandi imprese di Internet, come Google, Facebook o Amazon, fa notare Dominic Barton, direttore generale di McKinsey, hanno creato appena duecentomila posti di lavoro.» Ma hanno guadagnato «centinaia di miliardi di dollari di capitalizzazione in borsa»
Per rimediare al problema della disoccupazione, la classe dirigente rischia dunque di dover fronteggiare gli scenari temuti dal filosofo André Gorz; ovvero l’invasione continua dei campi ancora retti dalla gratuità e dalla donazione: «Dove si fermerà la trasformazione di tutte le attività in attività retribuite, aventi come ragione la loro remunerazione e la rendita massima come scopo? Quanto tempo potranno resistere le fragili barriere che impediscono ancora la professionalizzazione della maternità e della paternità, la procreazione commerciale degli embrioni, la vendita di bambini, il commercio di organi?».
La questione del debito convince quanto quella della gratuità se si svela il suo sfondo politico e sociale. Niente di più comune nella storia di uno Stato tenuto per la gola dai suoi creditori che, in un modo o in un altro, si libera dalla loro morsa per non infliggere più al suo popolo un’austerità perpetua. Fu il caso della Repubblica dei soviet che si rifiutò di onorare i prestiti russi sottoscritti dallo zar. O di Raymond Poincaré che salvò il franco… svalutandolo dell’80%, amputando in proporzione il carico finanziario della Francia, rimborsato in moneta svalutata. O ancora il caso degli Stati Uniti e del Regno Unito durante il dopoguerra che, senza una politica di rigore ma lasciando galoppare l’inflazione, quasi dimezzarono il fardello del loro debito pubblico.
Ma in seguito, come richiede il dominio del monetarismo, la bancarotta è diventata sacrilega, l’inflazione da perseguitare (ivi compreso quando il suo tasso sfiora lo zero), la svalutazione proibita. Ma benché i debitori siano stati liberati dal rischio di default, essi continuano a esigere un «premio di credito». «In una situazione di sovraindebitamento storico, mette in evidenza l’economista Frédéric   Lordon,   le  uniche  scelte possibili  sono   tra   l’aggiustamento strutturale al servizio dei creditori e una forma o l’altra della loro rovina». Dopo aver concesso loro tutto, l’annullamento di tutto o di una parte del debito arriverebbe a spogliare finanzieri e beneficiari di rendite, quale che sia la loro nazionalità.
Il laccio emostatico imposto alla collettività si allenterà tanto più velocemente quanto più essa recupererà le ricette fiscali dilapidate da trenta anni di neoliberismo. Non soltanto quando stata rimessa in discussione la progressività dell’imposta e si è fatto il callo alla generalizzazione della frode, ma anche quando è stato creato un sistema tentacolare nel quale la metà del commercio internazionale di beni e di servizi transita per paradisi fiscali. I loro beneficiari non si limitano a qualche oligarca russo o a un vecchio ministro delle finanze francese: sono soprattutto imprese vezzeggiate dallo Stato (e anche influenti sui media) come Total, Apple, Google, Citigroup o Bnp Paribas.
Ottimizzazione fiscale, «premi di trasferimento» (che permettono di localizzare i profitti delle filiali là dove le imposte sono basse), delocalizzazione delle sedi sociali: l’ammontare di denaro cosi sottratto alla collettività in completa legalità si avvicinerebbe a 1.000 miliardi di euro, solo per parlare dell’Unione Europea. Cioè, in numerosi paesi, una perdita in redditi imponibili superiore alla totalità del carico del loro debito nazionale. In Francia, come evidenziano diversi economisti, «anche recuperando soltanto la metà delle somme in gioco, la parità di bilancio potrebbe essere ristabilita senza sacrificare le pensioni, gli impieghi pubblici o gli investimenti ecologici per il futuro». Annunciato cento volte, annullato altrettante (e cento volte più lucrativo della perenne «evasione sui sussidi sociali»), il «recupero» in questione sarebbe tanto più popolare ed egualitario in quanto i contribuenti ordinari, da parte loro, non possono, ridurre il proprio reddito imponibile versando delle royalties fittizie alle filiali delle isole Cayman.
Alla lista delle priorità potremmo aggiungere il congelamento dei salari più elevati, la chiusura della Borsa, la nazionalizzazione delle banche, la rimessa in discussione del libero scambio, l’uscita dall’euro, il controllo dei capitali… Tutte idee già presentate su queste colonne. Perché allora favorire la gratuità, l’annullamento dei debito pubblico e il recupero fiscale? Semplicemente perché, per elaborare una strategia, per immaginare il suo fondamento sociale e le sue condizioni politiche di realizzazione, conviene scegliere un piccolo numero di priorità piuttosto che comporre un catalogo destinato a richiamare in strada una folla eteroclita di indignati che si dileguerà al primo temporale.
L’uscita dall’euro meriterebbe di figurare a colpo sicuro tra le urgenze. Tutti comprendono ormai che la moneta unica e la chincaglieria istituzionale e giuridica che la sostiene (Banca centrale indipendente, patto di stabilità) impediscono ogni politica che si accanisca contro l’aumento delle diseguaglianze e contro la confisca della sovranità di una classe dominante subordinata alle esigenze della finanza. Tuttavia, per quanto necessaria, la rimessa in questione della moneta unica non garantisce nessuna riconquista su questo doppio fronte, come dimostrano gli orientamenti economici e sociali del Regno unito o della Svizzera. L’uscita dall’euro, un po’ come il protezionismo, si fonderebbe peraltro su una coalizione politica che mischia il peggiore e il migliore, e all’interno della quale il primo termine prevale sul secondo, almeno per il momento. Il salario universale, l’amputazione del debito e il recupero fiscale permettono di attrarre altrettanto consenso, e anche di più, a patto di tenere in disparte convitati non desiderati

È   inutile   pretendere   che   questo «programma» disponga di una maggioranza in un qualunque parlamento del mondo.  Le trasgressioni che esso  prevede   comprendono   diverse regole  considerate   inviolabili.   Tuttavia, quando si è trattato di salvare il loro sistema in crisi, i liberisti, loro, non hanno mancato di audacia. Non hanno indietreggiato né davanti all’aumento   sensibile   dell’indebitamento   (eppure   avevano   assicurato che avrebbe fatto gonfiare i tassi di interesse). Né davanti a un forte rilancio del bilancio statale (eppure avrebbe scatenato l’inflazione). Né davanti   all’aumento   delle   imposte, alla nazionalizzazione delle banche in fallimento, o a un prelievo forzato dai depositi bancari, o al ripristino del controllo dei capitali (Cipro). Insomma, «quando i raccolti sono sotto la grandine, è folle chi fa il delicato». E ciò che vale per loro vale anche per noi, che soffriamo troppo di modestia… Tuttavia non è fantasticando un ritorno al passato né sperando solo di ridurre l’ampiezza delle catastrofi che si ridarà fiducia, che si combatterà la rassegnazione di non avere in definitiva altra scelta possibile che l’alternanza di una sinistra e di una destra che applicano più o meno lo stesso programma.
Serge Halimi_small

Sì, serve audacia. Parlando dell’ambiente, nel 1974 Gorz sosteneva che «un attacco politico, lanciato a tutti i livelli, strappa [al capitalismo] la gestione delle operazioni e gli oppone un progetto di società e di civiltà tutto diverso». Poiché, secondo lui, quello che importava era evitare che una riforma sul fronte ambientale si pagasse subito con un deterioramento della situazione sociale: «La lotta ecologica può creare difficoltà al capitalismo e obbligarlo a cambiare; ma quando, dopo aver resistito a lungo con la forza e con l’astuzia, finalmente cederà perché l’impasse ecologica sarà divenuta ineluttabile, farà propri questi obblighi come ha fatto propri gli altri. (…) Il potere di acquisto del popolo sarà contenuto, e tutto accadrà come se il costo del disinquinamento fosse prelevato dalle risorse di cui dispongono le persone per l’acquisto di beni di consumo». Da allora, la resilienza del sistema è stata dimostrata quando il disinquinamento è diventato i sua volta un mercato; per esempio a Shenzhen, dove alcune imprese poco inquinanti vendono ad altre il diritto di accedere la loro quota regolamentare mentre l’aria viziata uccide già più di in milione di cinesi l’anno.
Se non mancano le idee per rimettere il mondo al verso giusto, come impedire che entrino nel museo delle virtuose misure incompiute? Negli ultimi tempi, l’ordine sociale ha suscitato numerose contestazioni, dalle rivolte arabe ai movimenti degli «indignati». Dal 2003, con le folle immense riunite contro la guerra in Iraq, decine di milioni di manifestanti hanno invaso le strade, dalla Spagna a Israele, passando per gli Stati uniti, la Turchia o il Brasile. Hanno attirato l’attenzione, ma non hanno ottenuto grandi cose. Il loro fallimento strategico aiuta a segnalare il cammino da seguire.
La caratteristica delle grandi coalizioni contestatarie sta nel cercar di consolidare il loro numero evitando le questioni che dividono. Tutti intuiscono quali temi farebbero andare in frantumi un’alleanza che a volte ha per fondamento solo degli obiettivi generosi ma imprecisi: una migliore ripartizione dei redditi, una democrazia meno mutilata, il rifiuto delle discriminazioni e dell’autoritarismo. Via via che la base sociale delle politiche neoliberiste si restringe, che le classi medie pagano a loro volta il prezzo della precarietà, del libero scambio, del rincaro degli studi, diventa d’altronde più facile sperare di formare una coalizione maggioritaria.
Formarla sì, ma per fare cosa? Le rivendicazioni troppo generiche o troppo numerose fanno fatica a trovare una traduzione politica e a iscriversi nella lunga durata. «Per una riunione di tutti i responsabili dei movimenti sociali», ci spiegava recentemente Arthur Enrique, già presidente della Centrale unitaria dei lavoratori (Cut), il principale sindacato brasiliano, «ho messo insieme i diversi testi. Il programma delle federazioni sindacali prevedeva 230 punti; quello dei contadini, 77; etc. Li ho sommati tutti; faceva più di 900 priorità. E ho chiesto: “Che cosa ci facciamo, concretamente, con tutto ciò?”» In Egitto la risposta è stata data… dai militari. Una maggioranza del popolo si è opposta per tutta una serie di eccellenti motivi al presidente Mohamed Morsi, ma per mancanza di altri obiettivi rispetto a quello di assicurarne la caduta, essa ha abbandonato il potere all’esercito; con il rischio di divenirne oggi l’ostaggio, e domani la vittima. Non avere dei programmi di viaggio porta spesso a dipendere da quelli che ne hanno uno. La spontaneità e l’improvvisazione possono favorire un momento rivoluzionario ma non garantiscono una rivoluzione. I social network hanno incoraggiato   l’organizzazione   delle manifestazioni; l’assenza di un’organizzazione formale ha permesso di sfuggire – almeno per un po’ di tempo – alla sorveglianza della polizia. Ma il potere si conquista ancora con strutture piramidali, soldi, militanti, macchine elettorali e una strategia: quale blocco sociale, quale alleanza, per quale progetto? In questi casi possiamo applicare la metafora di Accardo: «La presenza su un tavolo di tutti gli ingranaggi di un orologio da polso non permette a qualcuno che non ha le istruzioni per il montaggio di farlo funzionare. Un piano per l’assemblaggio è una strategia. In politica, si può far nascere una serie di crisi in successione oppure si può riflettere sull’assemblaggio delle parti». Definire alcune grandi priorità, ricostruire la lotta intorno a esse, smetterla   di   complicare   tutto   tanto   per mettere alla prova le proprie virtuosità: questo significa giocare la parte dell’orologiaio, poiché una «rivoluzione alla Wikipedia dove ognuno aggiunge il proprio contenuto» non riuscirà ad aggiustare l’orologio. Negli ultimi anni alcune azioni localizzate, disorganizzate e febbrili hanno partorito una contestazione innamorata di se stessa, una galassia di impotenti e di impazienti, una successione di scoraggiamenti. Nella misura in cui le classi medie solitamente costituiscono la colonna vertebrale di questi movimenti, una tale incostanza non può sorprendere: esse si alleano con le categorie popolari solo in un contesto di pericolo estremo – e a condizione di assumere molto rapidamente la direzione delle operazioni. Tuttavia, si pone anche e sempre di più la questione del rapporto con il potere. Dato che nessuno immagina ancora che i principali partiti e le attuali istituzioni modifichino per poco che sia l’ordine neoliberista, cresce la tentazione di privilegiare il cambiamento delle mentalità su quello delle strutture e delle leggi, di trascurare il terreno nazionale, di reinvestire sul piano locale o comunitario con la speranza di crearvi alcuni laboratori per le vittorie future. «Un gruppo scommette sui movimenti, sulle diversità senza un’organizzazione centrale, riassume Wallerstein, un altro avanza che se non si ha il potere politico, non si può cambiare nulla. Tutti i governi dell’America Latina vivono questo dibattito».

Ciononostante si può misurare la difficoltà   della   prima   scommessa. Da un lato, una classe dirigente solidale, consapevole dei propri interessi, mobilitata e padrona del terreno e della forza pubblica; dall’altro, innumerevoli associazioni, sindacati e partiti, tanto più tentati di difendere il proprio orticello, la propria singolarità, la propria autonomia quanto più temono di essere riassorbiti dal potere politico. Forse essi si ritrovano anche a essere inebriati dall’illusione di Internet che fa loro immaginare di contare perché dispongono di un sito sul web. La loro «organizzazione reticolare» diviene allora la maschera teorica di un’assenza di organizzazione e di riflessione strategica, avendo la rete come sola realtà la diffusione circolare  i  comunicati  digitali  che ciascuno condivide in rete e che nessuno legge.

Il legame tra movimenti sociali e ricambio istituzionale, tra contropoteri e partiti, è sempre stato problematico. Dato che non esiste più un obiettivo principale, una «linea generale» – e meno che mai una linea o un cartello a incarnarla – bisogna «chiedersi come creare il globale a partire dal particolare». La definizione di alcune priorità capaci di mettere direttamente in causa il potere del capitale permetterebbe di rafforzare i buoni sentimenti, di attaccare il sistema centrale e di individuare le forze politiche disposte.
Sarà importante esigere subito da queste forze politiche che gli elettori possano, attraverso un referendum, revocare i loro eletti prima della fine del mandato, la Costituzione venezuelana prevede una disposizione di questo tipo dal 1999. Infatti, numerosi capi di governo hanno preso decisioni importanti (età del pensionamento, impegni militari, trattati costituzionali) senza averne precedentemente ricevuto mandato dal loro popolo. Quest’ultimo otterrebbe così il diritto di prendersi la rivincita in maniera diversa dal rimandare al potere i fratelli gemelli di chi ha appena tradito la sua fiducia.
Basterà poi attendere l’ora? «A inizio 2011, non eravamo più di sei persone ad aderire al Congresso per la Repubblica [Cpr], ricorda il presidente tunisino Moncef Marzouki. Ciò non ha impedito al Cpr di ottenere il secondo posto alle prime elezioni democratiche organizzate in Tunisia alcuni mesi più tardi…». Nel contesto attuale, il rischio di un’attesa troppo passiva, troppo poetica  significherebbe vedere altri da sé – meno pazienti, meno esitanti e più temibili – cogliere il momento per sfruttare a loro vantaggio una collera disperata alla ricerca di bersagli, non necessariamente i migliori. E siccome il lavoro di demolizione sociale non s’interrompe mai senza che lo si aiuti, dei punti di riferimento o dei focolai di resistenza da cui partirebbe una riconquista eventuale (attività non mercificate, servizi pubblici, diritti democratici) rischierebbero di essere annientati. E ciò renderebbe ancora più difficile una nuova vittoria.
La partita non è persa. L’utopia liberista ha distrutto la sua parte di sogno, di assoluto, di ideale, senza la quale i progetti sociali appassiscono e poi muoiono. Produce solo più privilegi, esistenze fredde e morte. Dunque un rovesciamento ci sarà. Ciascuno di noi può farlo arrivare un po’ più presto.
SERGE HALIMI

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Presidente Monti, ci farebbero comodo 4 miliardi di euro dalle prostitute?

30 lunedì Apr 2012

Posted by Ars Longa in Economia, Politica italiana

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Economia, liberismo, prostituzione

No, non sto per dire che il mondo dell’economia è ridotto ad un bordello. Sarebbe per certi versi una dichiarazione ovvia. Sto parlando del gettito fiscale della prostituzione. In Germania, pare, esercitare la prostituzione è legale. Le quattrocentomila prostitute locali pagano regolarmente le tasse e grantiscono alle casse del fisco tedesco poco meno di quattro miliardi di euro all’anno.

In Italia? Si può fare: lo prevede una sentenza della Cassazione che ha equiparato la professione più antica del mondo — e i relativi incassi — a qualsiasi altra attività lavorativa autonoma. E lo hanno stabilito anche moltissime sentenze delle commissioni tributarie provinciali e regionali contro i ricorsi delle prostitute. L’Agenzia delle Entrate però non spinge su questo versante perché la prostituta da strada è nel 99% nullatenente e non vi è nulla in suo possesso che sia “fiscalmente aggredibile”. Le prostitute “aggredibili” sono quelle ad uno scalino più alto. Il sistema italiano è una specie di redditometro: confronto tra reddito dichiarato e tenore di vita. Se l’Agenzia ritiene di trovarsi di fronte ad una prostituta professionista  si attribuisce una partita Iva d’ufficio e si calcola il 21% a titolo Iva oltre all’Irap e alle imposte sui redditi. Se la prostituta è occasionale il reddito viene determinato in base al possesso dei beni e l’Agenzia chiede l’importo calcolato.

Tutto bene dunque? Per niente. Lo Stato italiano fa il biscazziere con lotterie e gratta e vinci, mantiene il monopolio sui tabacchi, il tutto senza troppi problemi etico-morali. Di fronte alla prostituzione la strada maestra invece non viene seguita. E la strada maestra è ovviamente quella di legalizzare la prostituzione, organizzarla e, perché no, farci anche uno studio di settore. Contemporaneamente prevedere pene severe e applicate contro la prostituzione non registrata. Si fa in Germania con ottimi risultati: basta imitare il modello. Ma siamo in Italia e una soluzione del genere farebbe venire il mal di pancia al Vaticano, che ha già i suoi problemi a pagare le tasse sul suo patrimonio immobiliare. Molti econimisti liberisti di casa nostra (gli Ichino, i Giavazzi e compagnia cantante) non si occupano di questioni del genere: materia troppo sporca per le loro eccelse menti economiche troppo intente a togliere i soldi da pensionati ed operai. Così i liberisti e i baciapile si trovano d’accordo nell’ignorare il problema.

Il governo Monti – supposto tecnico – nominalmente svincolato dai partiti potrebbe farlo? Certamente, ma, con tutta evidenza, meglio tassare gli operai che le prostitute. Meglio il signor Rossi pensionato che la signorina Ruby Rubacuori. In fondo essere nipote di Mubarak dovrà pur dare qualche privilegio.

Non vergognatevi di chiedere la luna

16 venerdì Set 2011

Posted by Ars Longa in Economia, Politica italiana

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BCE, Crisi, crisi economica, default, Draghi, Economia, FMI, Grecia, inflazione, Irlanda, Italia, liberismo, liberisti, Mitterand, Portogallo, Sarkozy, tasse, Trichet

Anche questo non è un mio ma di Serge Halimi. Comparso su “Le Monde Diplomatique” di luglio 2011. Lo pubblico per dare una tacita risposta all’amico Flaunerotic che non è preoccupato per il liberalismo. Secondariamente perché ho avuto uno scambio di opinioni su un blog di una giornalista. In buona sostanza scriveva, inaugurando il suo blog, che è ora di finirla con i diti medi alzati di Bossi. Io sommessamente notavo che c’è ben altro di cui sdegnarsi. Anzi proprio sdegnarsi su quel dito medio ci distrae dai veri problemi. Problemi che a qualcuno fa comodo restino in silenzio. Temo però che non abbia afferrato il senso di quanto dicevo. Non almeno completamente.


La crisi europea, economica ma anche democratica. solleva quattro questioni fondamentali. Perché le politiche la cui bancarotta è assicurata sono tuttavia applicate in tre paesi (Irlanda, Portogallo, Grecia) con tanta ferocia? Gli artefici di tale scelte sono a tal punto illuminati che ogni – prevedibile – fallimento della loro medicina li induce a moltiplicare la dose? Nei sistemi democratici, com’è possibile che i popoli vittime di tale misure sembrino non avere altra scelta che rimpiazzare il governo che ha fallito con un altro ideologicamente identico e determinato a condurre la stessa “terapia dello shock”? E, infine, è possibile fare altrimenti?

La risposta alle prime due domande si impone non appena ci si liberi dallo sproloquio pubblicitario sull’”interesse generale”, i “valori condivisi dall’Europa” e la “convivenza” Lungi dall’essere folli, le politiche poste in essere sono razionali. E, essenzialmente, conseguono il loro obiettivo. Soltanto che esso non consiste nel porre termine alla crisi economica e finanziaria, ma nel raccoglierne i frutti, incredibilmente succulenti. Si tratta di una crisi che permette di sopprimere centinaia di migliaia di post di dipendenti pubblici (in Grecia nove lavoratori in via di pensionamento non verranno sostituiti), di tagliare i loro stipendi e la durata delle loro ferie. Inoltre essa consente di svendere interi settori dell’economia a vantaggio degli interessi privati, di rimettere in discussione il diritto del lavoro. di aumentare le imposte indirette (le più inique), di alzare le tariffe dei servizi pubblici, di ridurre i rimborsi per le cure mediche e, in altre parole, di realizzare il sogno di una società di mercato. Questa crisi costituisce insomma una fortuna per i liberisti. In tempi normali, la più piccola delle misure prese li avrebbe costretti a una lotta incerta e spietata: ora, tutto arriva immediatamente. Perché quindi dovrebbero desiderare I’uscita da un tunnel che per essi somiglia a un’autostrada verso la Terra promessa?

Lo scorso 15 giugno, i dirigenti dell’ lrish business and employers confederation (Ibec) organizzazione imprenditoriale irlandese, si sono recati a Bruxelles. Hanno chiesto alla Commissione europea di fare pressioni su Dublino affinché una parte della legislazione nazionale del lavoro venisse smantellata senza esitazioni. Al termine della riunione, Brendan McGinty – direttore delle relazioni industriali e delle risorse umane dell’Ibec – ha dichiarato: “Gli osservatori stranieri vedono bene che le nostre norme salariali ostacolano la creazione di impieghi, la crescita e la ripresa. Una riforma di ampio respiro costituisce I’elemento centrale del programma che ha ricevuto l’avallo dell’Ue (Unione europea) e del Fmi (Fondo monetario internazionale). Per il governo questo non è il momento di tirarsi indietro davanti alle decisioni difficili” Le decisioni non saranno difficili per tutti, poiché esse generalizzano una tendenza già osservata nei settori deregolamentati: l’Ibec sottolinea che “negli ultimi anni la scala delle remunerazioni dei nuovi salari si è ridotta di circa il 25%. Ciò significa che il mercato del lavoro risponde (sic) alla crisi economica e alla disoccupazione”. La leva del debito sovrano offre all’Ue e all’FMI i mezzi per far sì che a Dublino regni l’ordine sognato dal padronato irlandese.

La regola sembra essere applicata anche altrove, dato che l’11 giugno un editorialista di The Economist segnalava che “i greci desiderosi di riforme vedono nella crisi l’occasione per rimettere il paese sulla buona strada. Agli stranieri che impongono un giro di vite, ai loro eletti va il loro apprezzamento silenzioso. Sullo stesso numero del periodico liberista, si poteva trovare anche un’analisi del piano di austerità che I’Ue e l’Fmi stanno infliggendo al Portogallo: “Gli uomini d’affari credono fermamente che non si debba fuggire.
Pedro Ferraz da Costa, che dirige un think-tank imprenditoriale,  pensa che nessun partito portoghese avrebbe proposto nel corso degli ultimi trent’anni un programma di riforme così radicale. E aggiunge che il Portogallo non deve lasciarsi scappare una tale occasione. Viva la crisi, insomma.

Trent’anni è più o meno l’età della democrazia portoghese, con i suoi giovani capitani che il popolo copriva di garofani per ringraziarli di avere rovesciato la dittatura, messo fine alle guerre coloniali in Africa, promesso la riforma agraria, campagne di alfabetizzazione e il potere operaio nelle fabbriche. Ora, invece, con la riduzione del reddito minimo di inserimento e dell’ammontare dell’indennità di disoccupazione le “riforme” liberiste della previdenza,
della salute e dell’educazione e le privatizzazioni massicce si è compiuto un grande passo indietro. Per il capitale è come festeggiare Natale tutto l’anno. E l’albero natalizio continuerà a piegarsi sotto il peso dei regali dato che il nuovo premier Pedro Passos Coelho ha promesso di andare anche oltre quanto imposto da Ue e Fmi. Egli vuole infatti “sorprendere” gli investitori. “Che ne siano coscienti o no – è  l’analisi dell’economista americano Paul Krugman – i dirigenti politici servono pressoché esclusivamente gli interessi dei rentiers- coloro che traggono enormi vantaggi dai redditi provenienti dalle loro fortune, che hanno in passato prestato molto denaro, spesso in maniera scriteriata, e che attualmente vengono protetti da una perdita scaricandola su tutti gli altri”. Krugman pensa che le preferenze dei detentori di capitali si impongano tanto più naturalmente quanto più “essi versano somme significative per le campagne elettorali e hanno contatto con i decisori politici che, non appena termineranno di esercitare funzioni pubbliche, andranno a lavorare per loro”. Durante la discussione europea sul salvataggio finanziario della Grecia. il ministro austriaco delle finanze Maria Fekter affermò  inizialmente che “non potete lasciare che le banche realizzino profitti mentre i contribuenti realizzano le perdite”. Ingenuità toccante ma passeggera: dopo aver esitato per quarantotto ore, l’Europa ha lasciato che gli interessi dei rentiers si imponessero su tutta la linea, apparentemente, la crisi del debito sovrano è determinata da meccanismo “complessi” la cui comprensione necessita la capacità di sapersi destreggiare con le innovazioni permanenti  dell’ingegneria

finanziaria: prodotti derivati, premi di fallimento (i famosi Cds o credit default swaps), ecc. Tale sofisticazione complica I’analisi, o meglio la restringe a un piccolo cenacolo di “sapienti” che sono generalmente i profittatori. Essi incassano avendo cognizione di causa, mentre gli “analfabeti” economici pagano, pensando forse che si tratti di un tributo dovuto al fato. O a una modernità che li schiaccia, che è la stessa cosa. Tentiamo quindi la semplicità, cioè la politica. In altre epoche, le monarchie europee ottenevano prestiti dai dogi di Venezia, dai mercanti fiorentini e dai banchieri genovesi. Nulla poteva costringerli a rimborsarli; talvolta se ne dispensavan, il che regolava il problema del debito pubblico. Molto più tardi, il giovane potere sovietico fece sapere di non sentirsi debitore delle somme chieste in prestito e dilapidate dagli zar; generazioni di risparmiatori francesi si ritrovarono allora con dei crediti russi senza valore nel
loro salvadanaio.
Ma altri mezzi,. più raffinati permetterebbero di allentare la morsa del credito. Per esempio, il debito pubblico britannico passò tra il 1945 e il 1955 dal 216% al 138% del Prodotto interno lordo (Pil). Quello degli Stati Uniti dal 116% al 66%. E senza alcun piano di austerità, anzi. Certamente l’impetuoso sviluppo economico del dopoguerra assorbiva automaticamente la gran parte del debito nella ricchezza nazionale. Ma non era tutto. Perché gli stati rimborsavano un valore nominale che veniva assottigliato ogni anno dal livello dell’inflazione. Quando un prestito sottoscritto con un tasso annuale del 5% viene rimborsato con una moneta che cala ogni anno del 10%  ciò che viene definito  come “tasso di interesse reale” diventa negativo – ed è il debitore che ne trae profitto. Infatti, dal 1945 al 1980, il tasso di interesse reale fu negativo quasi sempre per la maggior parte dei paesi occidentali. Il risultato fu che “i risparmiatori depositavano il loro denaro in banche che lo prestavano agli stati a tassi inferiori rispetto a quelli dell’inflazione”. Il debito pubblico si sgonfiava allora senza grandi sforzi: negli Stati Uniti i tassi di interesse reali negativi riportavano al Tesoro americano una cifra pari al 6,3 % annuo del Pil per tutto il decennio 1945-1955.

Perché i “risparmiatori” accettavano di essere defraudati? Perché non avevano scelta. Essi, in ragione del controllo dei capitali e della nazionalizzazione delle banche, non potevano fare altro che prestare denaro allo stato, il quale si finanziava in questo modo. Era quindi impossibile che dei ricchi privati potessero fare speculazioni in Brasile
in titoli indicizzati sull’evoluzione dei prezzi della soia nei tre anni successivi,
restavano la fuga di capitali e le valigie piene di lingotti d’oro che abbandonavano la Francia per la Svizzera alla vigilia di una svalutazione o di una scadenza elettorale che rischiava di essere vinta dalla sinistra. Ma i frodatori rischiavano di ritrovarsi in prigione.
Con gli anni ’80, lo scenario è stato rovesciato La rivalutazione dei salari in funzione dell’inflazione (la scala mobile) proteggeva la maggioranza dei lavoratori dalle conseguenze di quest’ultima, mentre l’assenza di libertà di movimento dei capitali obbligava gli investitori l’assenza di libertà di movimento dei capitali obbligava gli investitori
a sopportare tassi di interesse reali negativi. Da quel momento in poi, sarebbe stato il contrario.

La scala dei salari spari praticamente ovunque. In Francia I’economista Alain Cotta chiamerà questa importante decisione assunta nel 1982 il “regalo Delorc” al padronato. D’altronde tra il 1981 e il 2007, I’idra dell’inflazione è stata abbattuta e i tassi di
interesse reali sono divenuti quasi ovunque positivi. Approfittando della liberalizzazione dei
movimenti di capitali, i “risparmiatori” (precisiamo che non è questo il caso della pensionata di Lisbona titolare di un conto in posta, e nemmeno dell’impiegato di Salonicco) mettono gli stati in concorrenza tra loro, e, per usare un’espressione di François Mitterrand, “guadagnano denaro dormendo”. Premio di rischio senza

assunzione del rischio, Può servire sottolineare che passare dalla scala mobile con tassi di interessi reali negativi a  una riduzione accelerata del potere d ‘acquisto con una remunerazione del capitale che spiccai l volo genera un rovesciamento totale dell’equilibrio sociale?
Apparentemente non basta più. Ai meccanismi che favoriscono il capitale a svantaggio del lavoro, la “troika” ( Commissione europea, Banca centrale europea, Fmi) ha deciso di aggiungere la costrizione, il ricatto, I’ultimatum. Stati dissanguati per avere soccorso
troppo generosamente le banche implorano un prestito per arrivare alla fine del mese la troika impone loro di scegliere tra la purga liberista e il fallimento.Una parte dell’Europa, che ieri spodestava le dittature di Antonio de Oliveira Salazar, di Francisco Franco e dei
colonnelli greci, si trova ora degradata al rango di protettorato amministrato da Bruxelles, Francoforte e Washington La  loro missione principale proteggere la finanza.
I governi di questi stati rimangono, ma unicamente per sorvegliare la corretta esecuzione degli ordini e per ricevere gli eventuali sputi del loro popolo che ha capito che non sarà mai abbastanza povero per impietosire iI sistema. Le Figaro rileva che “Ia maggior par te dei greci paragona la tutela di bilancio internazionale a una nuova dittatura, dopo quella dei colonnelli che segnò il paese dal 1967 al 1974. Com’e pensabile che I’idea di Europa possa uscire rafforzata dal trovarsi associata a una camicia di forza, a un ufficiale straniero
che si impadronisce delle vostre isole, delle vostre spiagge, delle vostre risorse nazionali e dei vostri servizi pubblici per rivenderli ai privati? Dopo il 1919 e il trattato di Versailles, chi può ignorare che un tale sentimento di umiliazione popolare può scatenare un nazionalismo distruttivo?
Tanto più che le provocazioni si moltiplicano. Mario Draghi, futuro governatore della Bce, che, come il suo predecessore dispenserà consegne di  “rigore” ad Atene, è stato vicepresidente della Goldman Sachs all’epoca in cui questa banca aiutava la destra greca a truccare i conti pubblici. L’Fmi, che ha anche un parere sulla Costituzione francese chiederà a Parigi di introdurre una  “norma di riequilibrio delle finanze pubbliche” Nicolas Sarkozy vi si impegnerà.

La Francia, dal canto suo, fa sapere che gradirebbe che, allo stesso modo dei loro omologhi portoghesi, i partiti greci “si riunissero e formassero un alleanza”. Il primo ministro François Fillon e José Barroso (presidente della Commissione europea) hanno cercato di convincere in questo senso il leader della destra greca Antonis Samaras.
Infine Jean Claude Trichet, presidente della Bce, prevede già che “le autorità europee abbiano il diritto di veto su alcune decisioni di politica economica nazionale”.
L’Honduras ha creato delle zone franche in cui non vige la sovranità statale. L’Europa istituisce attualmente dei “temi franchi” (economia politica sociale) rispetto ai quali il dibattito tra partiti svanisce, poiché si tratta di ambiti in cui la sovranità è limitata o nulla.
La discussione si concentra allora sui “temi di società”: burqa, legalizzazione della cannabis radar sulle autostrade, polemica del giorno a proposito della frase inopportuna, del gesto impaziente, dell’imprecazione del politico frastornato o dell’artista che ha bevuto troppo. Questo quadro d’insieme conferma una tendenza già percepibile da due decenni: la delocalizzazione del potere politico verso luoghi di imponderabilità democratica. Fino al giorno in cui I’indignazione deflagra. Oggi siamo a questo punto.

Ma l’indignazione è inerme senza la conoscenza dei meccanismi che I’hanno scatenata e senza ricambi politici. Le soluzioni – volgere le spalle alle politiche monetariste e deflazioniste che aggravano la “crisi”, annullare totalmente o in parte il debito, colpire le banche, domare la finanza, deglobalizzare, recuperare le centinaia di miliardi di euro persi dallo stato sotto forma di riduzioni di tasse a favore dei ricchi (soltanto in Francia 70 miliardi negli ultimi dieci anni) – sono note. Esse sono state spiegate dettagliatamente da persone la a cui conoscenza dell’economia non ha nulla da invidiare a quella di Trichet, ma che non servono gli stessi interessi.
Si tratta meno che mai di un dibattito “tecnico” e finanziario, ma piuttosto di una battaglia politica e sociale. Sicuramente i liberisti ridendo affermeranno che i progressisti reclamano I’impossibile. Ma loro che cosa fanno, se non dare I’ultima mano all’insopportabile?
Forse è giunto il momento di ricordare I’esortazione che Jean-Paul Sartre prestava a Paul Nizan: “Non vergognatevi di volere la luna: ne abbiamo bisogno!”

A voi la scelta: vincenti o perdenti

07 domenica Ago 2011

Posted by Ars Longa in Economia, Politica italiana

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BCE, Berlusconi, Crisi, Economia, globalizzazione, Grecia, Hayek, Irlanda, Italia, Keynes, liberismo, Nash, neoliberismo, pareggio di bilancio, Portogallo, scuola, teoria dei giochi, trasporti pubblici, Tremonti, Università

Più leggo i commenti degli illustri economisti sparsi per la penisola più mi accorgo che il pensiero unico del neoliberismo è entrato in tutte le teste. Quello che sta accadendo non sembra avere letture differenti. Persino i sindacati (e persino la CGIL) accettano l’unica ricetta ritenuta possibile: privatizzazioni, liberalizzazioni, diminuzione del costo del lavoro. C’è poco da illudersi non c’è una voce realmente contraria. Ma cosa è successo? Perché e da quando questo pensiero unico non ha alternative? E’ un verme che viene da lontano, un verme che ha scavato la mela negli anni e ha distrutto un modo di vedere la politica come elemento di governo dell’economia.

Erano gli anni Trenta dello scorso secolo. in Germania Walter Eucken fondava la rivista “Ordo”. Fu l’atto di fondazione di quella che è poi passata alla storia come Scuola di Friburgo. Terrorizzati dalla politica dirigista del nazismo (e ancor di più da quella del socialismo reale stalinista, nemici acerrimi del New Deal e di John Maynard Keynes, questo gruppo di tedeschi preparava la riscossa. Sino ad allora si era abituati a pensare al liberalismo economico come alla dottrina del “laisser faire”. I primi liberali sostenevano che lo Stato non deve mettere il becco nelle questioni economiche e deve limitarsi a lasciare che il mercato faccia il suo corso. Insomma per chi ha qualche ricordo scolastico è la “mano invisibile” dell’economia. Lo Stato deve essere il guardiano del mercato ed assicurare le migliori condizioni per il suo sviluppo. Bene, con gli “ordoliberali” cambia tutto. Lo Stato passa sotto la sorveglianza dell’economia. Il principio regolatore della macchina economica non è più il mercato ma il principio di concorrenza. Lo Stato ha il dovere di intervenire affinché la concorrenza sia sempre garantita. Alcuni anni più tardi gli “ordoliberali” si riunirono a Parigi nell’ormai famoso “Colloquio Lippmann”. Si trattava di un incontro per la presentazione di un libro che si trasformò nel momento fondante del nuovo movimento neoliberale. Dopo aver ribadito che a dominare l’economia doveva essere il principio di concorrenza i neoliberali esaminarono le politiche sociali. Ed è qui il punto che ci interessa di più.

Sino a quel momento le politiche sociali erano tutte quelle attività messe in piedi dallo Stato per ridurre le diseguaglianze economiche tra i cittadini. Per i neoliberali questa era una bestemmia perché lo Stato non può e non deve varare misure “correttive” che in qualche modo danneggino il libero corso dell’economia. Le disuguaglianze – dicevano – devono esistere. Cercare di ottenere meno diseguaglianza significa tassare i più ricchi e ridistribuire il reddito. Ma se un ricco viene tassato non potrà investire tutti i suoi soldi nel mercato e ciò danneggerà l’economia. Le uniche politiche sociali devono essere quelle rivolte a mantenere un minimo vitale per i poverissimi. Gli altri, quelli che hanno un reddito sufficiente devono difendersi dai rischi della vita (malattie, tracolli finanziari, etc.) attraverso assicurazioni o mutue private. In quel lontano 1938 i neoliberali dicevano chiaro e tondo che lo Stato on deve correggere gli effetti distruttori del mercato sulla società. Perché la distruzione portata dall’economia di mercato è una “distruzione creativa”. Ossia: il mercato distrugge ciò che non è concorrenziale e favorisce i migliori. Segniamoci la data di queste affermazioni: 1938.

In quel colloquio per spiegare il pensiero neoliberale con una metafora si disse che il neoliberalismo è come il codice stradale. Le auto non devono circolare come vogliono ma non bisogna neppure fissare itinerari e orari di circolazione. Insomma lo Stato deve creare il quadro generale nel quale la circolazione automobilistica (ossia la concorrenza) funziona perfettamente. Questo codice della strada è lo “Stato di diritto”. Sono sicuro che tutti avete sentito questa parolina magica: “Stato di diritto”. Lo Stato di diritto neoliberale crea le regole del gioco economico e fa in modo che siano sempre rispettate. Lo Stato di diritto non legifera sui particolari ma sul quadro generale. Secondo Hayek, lo Stato traccia il quadro più razionale all’interno del quale gli individui svolgono la loro attività “conformemente ai loro progetti personali”. Naturalmente se lo Stato legifera solo in modo formale e non entra nei particolari dovrà essere rinforzato l’aspetto giuridico. Probabilmente vedendo i telefilm americani vi sarete accorti della ossessione per tutto ciò che riguarda gli avvocati e la legge. E probabilmente vi sarete anche accorti che negli Stati Uniti la litigiosità investe tutto e finire in tribunale è consueto e continuo. La ragione è data dal fatto che effettivamente le leggi regolano soltanto in modo generale i problemi. I casi particolari (e la vita di tutti i giorni è una serie di milioni di casi particolari) vengono risolti dai giudici. La decisione di un giudice crea il diritto. Così nel nostro telefilm l’avvocato americano bravo è quello che riesce a trovare il precedente di una sentenza in un caso che può essere definito analogo.

Stato “leggero” che si occupa dei grandi principi e garantisce la concorrenza dunque. La concorrenza a sua volta regola il gioco dell’economia. E questo è un altro punto importante. I neoliberali per primi applicano la “teoria dei giochi” all’economia. In poche parole si tratta della scienza matematica che analizzando un conflitto cerca di trovare delle soluzioni attraverso dei modelli matematici di decisione. Uno dei più famosi matematici che si sono interessati alla teoria dei giochi è John Nash. Il nome magari non vi dice nulla però se avete visto il film  A Beautiful Mind  con Russel Crowe lo conoscete, perché è appunto la storia di John Nash premio Nobel per l’economia nel 1994. Sì, non avete letto male: premio Nobel per l’economia, non per la matematica. Perché la teoria dei giochi e particolarmente il cosiddetto “Equlibrio di Nash”  hanno influenzato pesantemente il pensiero economico del mondo in cui viviamo. L’equilibrio di Nash può essere spiegato in termini semplici: immaginate un gruppo di persone che stanno giocando. Ogni giocatore gioca pensando a quel che è meglio per sé stesso. Adotta cioè una sua strategia di gioco. Insomma ognuno vuole vincere e gioca secondo una linea che pensa sia la migliore. Ma le strategie degli altri giocatori bene o male influenzano la sua. Così tutti, cercando il proprio guadagno, si influenzano a vicenda. E questo influenzarsi a vicenda crea un equilibrio. Il guadagno dipende dalle scelte di tutti i giocatori. Prendete tutto questo e trasportatatelo in economia: ognuno cerca di arricchirsi e adotta le sue strategie e influenza le possibilità degli altri di arricchirsi a loro volta. Alla fin fine la maggioranza non raggiungerà i massimi risultati possibili in termini di guadagno perché anche gli altri guadagneranno qualcosa. Certamente c’è qualcuno che può tentare di mettersi d’accordo con una parte dei suoi concorrenti per guadagnare di più a scapito degli altri ma in questo caso interviene lo Stato (ossia il manuale del gioco) che stabilisce le regole. Non è un caso che Nash si sia più volte dichiarato un fervente neoliberale.

Bene, se è chiaro tutto questo, c’è una conseguenza evidente: la maggioranza dei giocatori otterrà un risultato positivo (anche se inferiore ai desideri di partenza) e una minoranza più o meno larga uscirà sconfitta dal gioco, ossia avrà delle perdite. Il che tradotto in altri termini significa che una parte dei giocatori – cioè noi – si troverà in povertà o senza lavoro. Cosa dovrà fare lo Stato in questo caso? I neoliberali dicono che eliminare la povertà non è un obiettivo che lo Stato si deve porre. L’unico problema è la povertà assoluta che non permette al giocatore di sedersi al tavolo e continuare a giocare. La politica sociale si deve occupare dei totalmente poveri non dei poveri relativi. Ossia lo Stato deve aiutare chi non ha più nulla da mangiare o non ha un tetto sulla testa. Deve aiutarlo solo sino a quando non sarà di nuovo in grado di ributtarsi nel gioco. I neoliberali non vogliono eliminare la povertà come i socialisti o i keynesiani, i neoliberali non vogliono eliminare le disuguaglianze. Se in uno Stato c’è disoccupazione lo Stato non deve preoccuparsi. Spesso – dicono – l’economia ha bisogno che ci sia disoccupazione. In certi momenti i disoccupati lasciati a “galleggiare” grazie ad una assistenza minimale fanno bene all’economia. Invece di spendere soldi e risorse per ottenere un lavoro per tutti è più conveniente lasciare quei soldi dentro al gioco della concorrenza. Chi ha soldi continuerà a giocare e prima poi con i propri investimenti creerà le condizioni per riassumere i disoccupati.

Guardate cosa sta accadendo in USA. Obama ha cercato di allargare l’assistenza sanitaria ad una fascia di reddito più alta. Ossia ha cercato di garantire aiuto non solo ai poveri assoluti (per i quali già esiste un programma) ma anche ai poveri relativi. I poveri relativi sono quelli che guadagnano abbastanza per non dormire sotto i ponti e chiedere la carità ma che non hanno i soldi per pagarsi una assicurazione privata. Per far questo occorreva tassare di più i redditi alti, far pagare le tasse ai più ricchi. Obama ha tradito le regole del neoliberalismo e siccome in USA il neoliberalismo è da sempre più che una teoria economica una religione, ecco la ragione di tutti i suoi guai e le sue sconfitte. Obama viene definito così un “socialista” da moltissimi negli Stati Uniti.

Insomma, ci sono due mondi: un mondo che pensa che lo Stato attraverso il suo intervento ha l’obbligo di ridurre la povertà e fare in modo che lavorino tutti. Un mondo che pensa che lo Stato debba solo favorire la concorrenza, il libero gioco perché grazie ad esso le cose potranno funzionare e tutti potranno giocare con una possibilità di essere vincenti. Pensateci: “perdenti” e “vincenti”. La società neoliberale divide le persone in queste due categorie e offre un sogno, quello di essere “vincenti”. E quando si è vincenti nella società neoliberale si può essere sfacciatamente vincenti. Volete sedervi ad un tavolo da gioco nel quale al massimo potete perdere 100 euro ma avrete la possibilità di vincerne al massimo 200? Non preferireste sedere ad un tavolo dove rischiate di andare in rovina ma, se vi va bene, portate a casa milioni di euro? Questa è la proposta neoliberale: un tavolo da gioco che può cambiarvi la vita. Questo è il sogno americano neoliberale. Tutti hanno la possibilità di sedersi al tavolo da gioco in America, la democrazia consiste nel darti la libertà di giocare. Se perdi però è un problema tuo, non della società.

La novità (ammesso che possa dirsi tale) è che l’America è qui. La crisi che stiamo attraversando in Europa è anche l’ultima spallata che il neoliberalismo sta dando a quel che rimane di Stato sociale così come la mia generazione nata nell’epoca del boom economico l’ha vissuto. Quello che stanno facendo alla Grecia, al Portogallo, all’Irlanda, alla Spagna e a noi è la picconata definitiva. Gli anni che ci aspettano sono anni nei quali le cose cambieranno definitivamente. Tutto ciò che rimarrà con l’etichetta “pubblico” sarà il girone infernale dedicato ai perdenti. Scuola pubblica, Università pubblica, trasporti pubblici, sanità pubblica saranno il minimo vitale e spesso neppure quello. Se vorrete avere studi decenti per i vostri figli (e dovrete volerlo perché se no non si siederanno mai al tavolo del gioco) dovrete pagare, dovrete pagare per avere cure mediche decenti, dovrete pagare per mantenervi nella vecchiaia o continuare a lavorare fino all’ultimo respiro. Dovrete pagare veri biglietti di treno e autobus se vorrete viaggiare decentemente. Dovrete sedervi al tavolo e giocare la vostra partita. Dovrete aumentare al massimo il vostro capitale umano perché sarete selezionati in base ad esso. Dovrete usare sempre e comunque i gomiti e puntarli agli occhi del vicino.

La Banca Economica Europea ci sta chiedendo di mettere il pareggio di bilancio nella Costituzione. Vivremo in una società fondata sul pareggio di bilancio non sul diritto al lavoro, perché non c’è un diritto al lavoro: c’è solo la possibilità di sedersi al tavolo da gioco. Magari le vostre figlie saranno fortunate e diventeranno veline e non rimarranno commesse di negozio a 600 euro precarie. Magari i vostri figli troveranno un buon lavoro se giocheranno bene le loro carte. Magari no. Ma questo sarà solo un loro problema.

Benvenuti nella definitiva era neoliberista. Questo è il momento o di scendere in piazza o di sedersi al tavolo e cominciare a giocare questo gioco inumano. A voi la scelta.

Studenti, classe media e declino italiano

21 martedì Dic 2010

Posted by Ars Longa in Economia, Politica italiana

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Economia, Gasparri, Giuseppe Cruciani, manifestazioni, moviemnto studentesco, piazza, studentesco, studenti, Università

Notizia di ieri: il 45% della ricchezza complessiva delle famiglie italiane alla fine del 2008 è in mano al 10% delle famiglie. E’ uno dei dati contenuti nel rapporto su “La Ricchezza delle famiglie italiane” elaborato dalla Banca d’Italia. La metà delle famiglie italiane, quelle a basso reddito, detiene solo il 10% della ricchezza complessiva.

La fonte è BankItalia. Significa che – a meno di non considerare la nostra Banca Centrale un pericoloso covo di comunisti – abbiamo un problema. Un problema che si capisce meglio tirando le conclusioni dal dato: il 40% delle famiglie italiane detiene il 45% della ricchezza nazionale. Sto parlando della classe media. Questo significa che l’ossatura di una nazione, la classe media (quella che ha capacità di risparmio e che è il parco buoi di tutti i promotori finanziari) è a rischio estinzione sotto il profilo numerico e per capacità di impatto sull’economia complessiva.

Questa situazione si verifica solitamente nei Paesi dell’America Latina e in generale nel Terzo Mondo. Non lo dico io: è un fatto noto. Arianna Huffington quest’anno ha pubblicato un libro dal titolo “Third World America”, Terzo mondo America. Nel quale si sostiene che è proprio negli Stati Uniti che si sta verificando il fenomeno della scomparsa della classe media con maggiore evidenza. Ma questa constatazione non è nuova, ne aveva scritto Frederick Strobel in  “Upward Dreams, Downward Mobility: The Economic Decline of the American Middle Class”. Ne aveva parlato Teresa Sullivan venti anni fa in “The Fragile Middle Class: Americans in Debt”.

Perché la classe media va in crisi? Per una seria di motivi:

a)  crisi di credito

b) bolla immobiliare che dagli USA è passata all’Europa contagiando la crisi

c) disoccupazione in aumento.

d) salari stagnanti o con perdita di potere d’acquisto

e) crollo della redditività dei lavori tipici della classe media

A provocare questi motivi sta una politica che dura da trent’anni, inaugurata da Reagan negli Stati Uniti e da Margaret Thatcher in Gran Bretagna. Arrivata in Italia all’inizio degli anni Novanta questa politica ha smantellato progressivamente il welfare state, ha finanziarizzato l’economia, globalizzato i mercati. In un mondo nel quale i capitali migrano dove le garanzie sono più basse e i salari molto contenuti è inevitabile che sia la classe media a soffrirne. Se posso pagare 200 euro ad un ingegnere indiano perché pagarne 2000 ad uno italiano? Ma l’ingegnere italiano è il frutto della classe media. Perché è la classe media che studia per ottenere un miglioramento generazionale. Tutti i lavori tipici della classe media possono – oggi – essere comprati all’estero o delocalizzati. Per questo motivo studiare, laurearsi non è più un fattore di promozione sociale ma – più spesso – un boomerang per un giovane.

Nella assenza di welfare state la crisi deve poi essere assorbita dalle famiglie. Questo significa che il periodo di tempo necessario a sostenere un figlio che non trova lavoro riduce la ricchezza complessiva delle famiglie. Ma c’è un’altra conseguenza della crisi della classe media: la diminuzione della democrazia. Ci sono ancora dei romantici che regalano l’etichetta di democrazia in base all’esistenza o meno di libere e periodiche elezioni. Purtroppo questo dato non è adatto a testare lo stato di salute di una democrazia. Se la classe media soffre significa semplicemente che rinuncia al superfluo e il superfluo è l’informazione e  la cultura. Un popolo disinformato e ignorante può anche continuare a votare ma ha perso – o sta perdendo – gli strumenti per valutare ciò che vota. Per catturare i disinformatie gli ignoranti la politica si deve trasformare e semplificare diventando primitiva nei suoi contenuti e demagogica nei suoi leader. Così il circolo si chiude sempre a sfavore della classe media dalla quale non provengono più quadri qualificati della politica la cui gestione scivola progressivamente nelle mani del 10% ricchissimo.

Le dimostrazioni degli studenti che attraversano le nostre strade avvertono confusamente questo dato di fatto. Ma ciascun laureato ha imparato a capire che la sua laurea (qualsiasi sia la materia) vale sempre meno in termini di impiego e di salario. Oggi in piazza ci sono i figli della classe media non pericolosi terroristi o estremisti di sinistra. Figli destinati a cercare lavori precari e sottopagati perché il valore del lavoro è crollato negli ultimi dieci anni in modo drammatico.

Giuseppe Cruciani dalle frequenze di Radio24 tuona contro gli studenti "fighetti" che scendono in piazza. Lui in piazza non ci va, i suoi problemi li ha risolti scrivendo un aureo libretto a favore del Ponte sullo Stretto di Messina e inventandosi opinionista.

Secondo dati Cgil  nel periodo 2000-2008 le retribuzioni lorde in Italia sono cresciute (+2,3%) molto meno rispetto a quelle medie degli inglesi (+17,40%) e francesi (+11,1%).  Oggi 15 milioni di lavoratori dipendenti guadagnano meno di 1.300 euro al mese ma per sette milioni di questi la busta paga segna meno di 1.000 euro (per il 60% sono donne). Se un lavoratore dipendente “standard” nel 2009 portava a casa 1.260 euro netti in busta paga il salario scendeva a 1.031 per lo stesso lavoratore in una piccola impresa (fino a 19 addetti) e 1.008 per un dipendente del Mezzogiorno. Nel 2009 segnavano retribuzioni medie sotto i 1.000 euro gli immigrati (949), i lavoratori a termine (929), i giovani (920) e quelli in collaborazione (841 euro).

La classe politica di questo Paese ha perso qualsiasi contatto con la realtà. Se Gasparri raccomanda ai genitori di non lasciare andare i figli in piazza non è perché in piazza ci siano gli assassini. In piazza non ci sono neppure i privilegiati figli della buona borghesia (come ripete dalle frequenze di Radio24 il pennivendolo Giuseppe Cruciani). In piazza ci sono i figli della classe media moribonda.

L’Irlanda è economicamente morta. Perché?

12 venerdì Nov 2010

Posted by Ars Longa in Economia

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Economia

Mentre in Italia stiamo digerendo l’interminabile “soap opera” tra Fini e Berlusconi la vera notizia rimbalza da un giornale all’altro: l’Irlanda non ce la fa più. Il G20 di Seul ha confermato che l’economia irlandese è sull’orlo del vulcano. Come è potuto succedere? Negli anni Novanta l’Irlanda ha vissuto un lungo periodo di crisi. Verso il 2000 si è adottata una politica economica tutta volta ad attirare capitali stranieri. Lo strumento per far arrivare gli investitori è stato principalmente quello fiscale. (ossia incentivi) e una aliquota del 12.5% sulle attività produttive. La preferenza irlandese è andata soprattutto verso le aziende americane del settore elettronico. In poco tempo sono sbarcate in Irlanda Microsoft, Apple, Oracle, HP e altri. L’uovo di colombo per avere gli investimenti dell’high tech è stata l’abolizione della tassazione sui diritti d’autore del software. Chiaramente in un contesto favorevole dal punto di vista fiscale era diventato particolarmente vantaggioso commercializzare il software in Irlanda. Parallelamente una campagna – promossa in modo massiccio – ha convinto molti irlandesi emigrati a rientrare in patria e porsi al servizio della “tigre” economica che sembrava ruggire definitivamente. Per anni ci siamo sentiti dire che questa era la grande ricetta del neocapitalismo liberale: abbassare le tasse e attrarre capitali stranieri. Recentemente uno degli alfieri di questa teoria è il signor Marchionne che ad ogni sospiro ricorda i pochi investimenti esteri in Italia. Ma non basta. L’Irlanda negli ultimi anni ha anche liberalizzato il mercato del lavoro in stile italiano rendendo semplice assumere a poco e licenziare velocemente. Insomma una Mecca per i coraggiosi imprenditori di mezzo mondo. Cosa è successo? L’Irlanda è stata la punta di diamante della globalizzazione europea e oggi è ridotta in briciole. Dall’inizio della crisi mondiale del 2008 il governo irlandese ha varato tre manovre finanziarie che – nel febbraio 2010 – valevano il 5% del PIL. Il ministro delle finanze Lenihan ha dichiarato all’inizio dell’anno che se i sacrifici imposti agli irlandesi fossero stati adottati in Francia a Parigi sarebbe scoppiata una rivolta popolare. Le manovre come conseguenza immediata hanno fatto sì che il 10% degli irlandesi siano oggi dipendenti dai (magri) sussidi di Stato e la disoccupazione sia schizzata ad oltre il 12% della forza lavoro. La realtà è che i tempi delle vacche grasse irlandesi erano in realtà tempi di vacche drogate. L’economia liberista e globalizzata non era altro che una economia gestita in modo clientelare e corrotto. Tutto per anni, si è basato su di un rapporto stretto tra governo e imprese. Il partito conservatore e il suo leader ed ex-premier Bertie Ahern non nascondeva che il partito si era legato a doppio filo con le banche e con gli immobiliaristi. Per anni agli irlandesi è stata propinata l’idea che il loro boom economico era dovuto ad una capacità di attrarre investimenti grazie ad una innovativa flessibilità fiscale. La realtà è stata molto diversa. Le aziende americane sono sbarcate in Irlanda perché l’Irlanda è diventata un paradiso fiscale dentro l’Unione Europea in grado di agevolare nel resto del continente europeo la penetrazione del prodotto made in USA. Gli investitori stranieri non hanno portato nulla sul suolo irlandese se non avamposti finanziari. E che ciò sia lampante lo dimostrano i problemi di Google in questi giorni. Per evadere una parte delle tasse statunitensi la dirigenza di Google ha utilizzato un sistemino in cinque tappe:

  1. Google licenzia i propri diritti di copyright intellettuale del motore di ricerca e di altre partite profittevli (come il nuovo smartphone Android) alla Google Ireland Holdings sua sussidiaria in Irlanda. Da notare che la tassa irlandese sui copyright è del 12,5% mentre quella statunitense è del 35%.
  2. Google Ireland Holdings dichiara che la sua sede sociale è nelle Bermuda e perciò evita di pagare anche le tasse irlandesi.
  3. A questo punto entra in azione una terza società sussidiaria: la Google Ireland Ltd sulla quale converge l’88% di tutti i profitti che Google realizza fuori dagli Stati Uniti. Ma su questa montagna di soldi la Google Ireland Ltd paga meno dell’1% di tasse allo Stato irlandese perché versa 5,4 miliardi di dollari alla Google Ireland Holdings in royalties. Il costo delle royalties pagate in questo modo azzera i profitti di Google Ireland Ltd che può dimostrare di avere un bilancio magro e pagare tasse come fosse una aziendina.
  4. A questo punto a pagare le tasse dovrebbe essere la Google Ireland Ltd che ha incassato le royalties, Errore. Le royalties infatti non vengono versate direttamente dalla Google Ireland Ltd alla Google Ireland Holdings. ma ad una terza sussidiaria: la Google Netherlands Holdings BV.
  5. La Google Netherlands Holding BV è una società che non ha uno straccio di impiegato ma è solo una scatola vuota. Appena ricevuti i soldi non li trattiene (altrimenti il governo olandese li tasserebbe) ma li spedisce subito alla Google Ireland Holdings che per la legge irlandese a questo punto non è tassabile perché non c’è tassa sui capitali che arrivano in Irlanda dall’estero proprio perché la filosofia è attirare investitori esteri.

Così il cerchio si chiude. Google riduce le tasse pagate negli Stati Uniti, non paga le tasse in Irlanda. Tutta l’apertura dell’Irlanda agli investitori stranieri non serve a niente. Questa strategia – che attenzione è legale sfruttando un buco legislativo probabilmente voluto – è nota negli ambienti finanziari con il nomignolo di “Dutch Sandwich”, il panino olandese. Ma Google non è sola. Siccome il “panino olandese” è legale sembra che più di cento imprese straniere in Irlanda lo adottino o adottino strategie analoghe. Tra queste risulta ci sia Microsoft e Facebook (che usa le Isole Cayman al posto delle Bermuda). A scoprire la strategia è stato Jesse Drucker di Bloomberg (per gli interessati il documento .http://www.bloomberg.com/news/2010-10-21/google-2-4-rate-shows-how-60-billion-u-s-revenue-lost-to-tax-loopholes.html è particolarmente interessante)

Cosa ci insegna tutto questo? Semplicemente che l’Irlanda ha attratto capitali per lo più perché è diventata un paradiso fiscale non perché gli investitori abbiano ritenuto che ci fossero le condizioni per produrre in Irlanda. Sono arrivati (e per lo più hanno solo transitati) i capitali finanziari e non capitali che hanno reso il Paese strutturalmente forte. I capitali che sono arrivati sono quelli che si spostano con un click del mouse da una parte all’altra del mondo.
La globalizzazione di cui l’Irlanda è stata protagonista non arricchisce gli Stati o le persone, arricchisce semplicemente le imprese.
Il paradosso è che – come tutti gli altri Stati entrati in crisi – l’Irlanda ha pompato fiumi di denaro nelle casse delle banche per salvare quello stesso sistema finanziario che l’ha messa nei guai. Per trovare questi soldi l’Irlanda ha contratto debiti esteri che ora non sa come ripagare. I sacrifici imposti agli irlandesi per salvare le banche sono stati così alti che oggi non c’è più modo di mungere ancora i cittadini. Altri sacrifici significherebbero bloccare definitivamente qualsiasi speranza di ripresa economica.
Il bello è che nell’Unione Europea nessuno è puro. A partire dal 2001 tutti gliStati hanno inaugurato una “contabilità creativa” volta a truccare i bilanci. La Francia attraverso un versamento eccezionale di France Telecom, la Germania ha venduto le licenze di telefonia mobile e ha utilizzato il trucco della differenza tra bilancio federale e bilancio dei Lander. L’Italia ha moltiplicato le operazioni di cartolarizzazione del debito. Trucchi legali intendiamoci. Ma attraverso questi trucchi i bilanci sono stati truccati. E se a truccarli erano paesi come Francia e Germania come si potevano sanzionare altri Paesi come Grecia, Irlanda e Spagna?
In questi giorni il governo irlandese ha varato un’altra finanziaria con tagli per altri sei miliardi di euro. l’Irish Independent ha scritto che questo è un bagno di sangue che trascinerà l’Irlanda di nuovo nello Stato più povero dell’Europa occidentale come a metà Ottocento.
L’unica risposta alla crisi oggi sembrano essere i sacrifici per i cittadini (soprattutto i non abbienti). Tutti i ministri economici d’Europa ripetono come un mantra che l’unico modo per salvare le economie è stringere la cinghia. Nessuno però riflette in modo chiaro sul perché l’economia globalizzata ha spinto le economie di Europa e Stati Uniti in questa direzione, nessuno si chiede se questo modello economico abbia in sé il germe della crisi. Nessuno riflette sulla possibilità che un’altra economia sia possibile. E non sto parlando di una alternativa “bolscevica”.
Paul Krugman, premio Nobel per l’economia ha scritto recentemente sul New York Times: “La logica dell’economia elementare ci dice piuttosto che dovremmo cercare di raggiungere i nostri scopi sociali con interventi “dopo mercato”. Cioè dovremmo prima lasciare che i mercati facciano il loro lavoro, usando in modo efficiente le risorse del paese e poi usare la ridistribuzione del reddito fiscale per dare una mano a quelli che sono rimasti tagliati fuori”. Siamo sicuri che ciò che sta accadendo confermi l’idea che i mercati stiano facendo il loro lavoro? Siamo sicuri che ciò che fa bene ai mercati fa bene alle persone? Io – e a questo punto sono sicuri anche la maggioranza degli irlandesi – credo di no.

La Grecia che muore, il Giappone che sopravvive

12 mercoledì Mag 2010

Posted by Ars Longa in Uncategorized

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Economia, Giappone, Grecia

Interrompo il filo del mio discorso sul “Sistema Mondo” per fare una riflessione su quel che intorno si sente dire a prposito o a sproposito della crisi greca.

Oramai è un dato che sanno anche i bambini: la Grecia è sull’orlo del fallimento e la speculazione internazionale ha sfruttato le sue debolezze. Con il 113% di debito pubblico sul PIL e un deficit pari al 13,9% che cosa si aspettavano? In fondo quando qualcun altro sta male si ha una doppia reazione: da un lato si pensa silenziosamente che noi non siamo così malmessi, c’è chi sta peggio. Dall’altro lato ci si improvvisa censori dei difetti altrui. Insomma ripetono gli esperti: i greci hanno vissuto come cicale e adesso è arrivato l’inverno. Vorrei però fare un ragionamento un poco fuori dal coro. Vorrei cioè farmi una domanda: perché le cose vanno male alla Grecia e vanno bene al Giappone? Diamine, mi direte, “vuoi paragonare il Giappone con la Grecia?”. Sì voglio paragonarlo usando gli stessi parametri che ci fanno dire che la Grecia è economicamente agonizzante.
Il debito pubblico giapponese misurato sul PIL è previsto per il 2010 al 200% del PIL. Ossia un indebitamento superiore di 87 punti rispetto alla Grecia. Gli analisti pensano che il debito arriverà al 240% nel 2014. Questo significa che il Giappone ha debiti per circa 2 trilioni di dollari. Si è detto che in Grecia (come e più dell’Italia) l’evasione fiscale è a livelli insopportabili. In Giappone non c’è evasione fiscale (almeno ufficialmente) ma l’aliquota media di tasse che i contribuenti pagano è del 25% contro più del 45% in Italia. La situazione Giapponese insomma è – guardando i dati – un incubo: un debito pubblico ingovernabile e un livello di tassazione tra i più bassi tra i paesi sviluppati. Perché gli speculatori non attaccano lo yen? Perché il Giappone è considerato dalle agenzie di rating “AAA” e la Grecia è considerata di fatto alla bancarotta?
La differenza sta in un “piccolo” particolare. Gli investitori internazionali sono anche i sottoscrittori del debito greco, il debito giapponese è nelle mani dei giapponesi. Ciò tradotto significa che i titoli di Stato greci sono stati comprati non dai cittadini greci ma da banche, fondi pensione, altri Stati. Il livello di risparmio delle famiglie greche non è sufficiente a sostenere l’emissione di titoli di Stato, così Atene colloca all’estero i suoi “BOT”. In Grecia è successo quel che trenta anni fa è successo in USA: se i cittadini americani non risparmiano si usa il risparmio degli altri Paesi.
Ma come si fa ad attrarre gli investimenti esteri? Si deregolamenta il sistema finanziario diventando appetibili agli investitori. Meno regole, più guadagni. Ronald Reagan lo sapeva quando introdusse la “deregulation”. Lo slogan era che si trattava di una modernizzazione del sistema che avrebbe favorito i consumatori. In realtà l’obiettivo era attrarre i capitali dal resto del mondo.
Ovviamente gli altri Paesi negli ultimi trent’anni non sono rimasti a guardare immobili gli americani. Tutti hanno abbassato le barriere per intercettare capitali. Tutti i Paesi sviluppati hanno promosso la loro “deregualtion”. Il rovescio della medaglia sta nel fatto che se un Paese vende sul mercato – e non ai propri risparmiatori nazionali – la gran parte dei suoi “BOT”, quel Paese è nelle mani del mercato. E – si sa – il mercato pensa a guadagnare e sposta i capitali dove c’è maggiore convenienza. Perciò può facilmente capitare che chi ha comprato i “BOT” di un Paese, il giorno dopo, trovi più conveniente venderli e comprare quelli di un altro che, magari, rendono di più.
In Giappone le banche nazionali e i fondi pensione hanno acquistato e continuano ad acquistare i titoli pubblici nazionali al 90%. Moody’s, Standard & Poor, valutano il Giappone “AAA” con un deficit del 200% semplicemente perché sanno benissimo che nessuna banca giapponese, nessun risparmiatore si sogna di abbandonare i “BOT” nazionali e comprare qualcosa di più redditizio. Così quando Tokyo ha bisogno di soldi freschi emette titoli di Stato che vengono assorbiti dal mercato interno. Un mercato interno favorito dal fatto che il giapponese medio è antropologicamente un risparmiatore e con una tassazione al 25% ha anche più possibilità di risparmiare.
Negli USA il tasso di risparmio dei cittadini era dell’8% nel 1980, oggi è a zero. Questo significa che il destino dell’economia non è più in mano ai cittadini ma agli investitori che fanno non l’interesse della nazione ma quello proprio.
Qualche economista preparato potrebbe obiettare che il concentramento del risparmio rischia di causare la “evizione”.  In economia si parla di “effetto di evizione” quando, in una economia finanziaria chiusa (come quella in cui tutti o quasi tutti comprano i BOT) lo Stato assorbe la massa monetaria lasciando “a secco” tutti gli altri che avrebbero bisogno di liquidi. In altre parole: se la maggior parte del risparmio lo incamera lo Stato quel che resta per le aziende quotate in Borsa è troppo poco. Il rischio c’è indubbiamente ma solo quando la massa di denaro risparmiato copre solo i bisogni dello Stato. In Giappone invece il risparmio nazionale è in grado di soddisfare lo Stato e quel che rimane è perfettamente in grado di sostenere l’economia. Il problema si verificherebbe solo nel caso in cui diminuisse la propensione al risparmio.
Dunque la fortuna del Giappone è il risultato della passione dei giapponesi per il risparmio? Sì, ma non solo. Il Giappone è stato molto attento a globalizzare tutto meno che la propria capacità decisionale politica in campo economico. I giapponesi non hanno deregolamentato il loro mercato come gli altri Paesi e la politica ancora oggi prende le decisioni strategiche in tema di economia.
In USa e in Europa gli economisti liberali hanno l’abitudine di condannare ogni intervento dello Stato in materia di economia. A parer loro lo slogan “meno Stato, più mercato” è ciò che conta di più. Il risultato è che quando c’è solo il mercato a decidere la spinta che viene data non è al risparmio ma al consumo. L’economia iiberale funziona perché le persone continuano ad alimentare senza sosta il circuito dell’acquisto. Spesso all’interno della crisi il Presidente del Consiglio Berlusconi ha ribadito la necessità di far ripartire i consumi. Il che è ovviamente un bene, i consumi non possono stare fermi. Ma un eccesso di consumi azzera il risparmio e spinge le persone a pensare di poter acquistare tutto magari a rate o con la carta di credito. Perché risparmiare per potersi comprare la casa se mi offrono mutui al 120% del valore? Questo è quello che gli americani hanno pensato e si sono indebitati al di là delle possibilità economiche. Ma se tutti comprano e nessuno risparmia come si regge il sistema? Si regge sui soldi degli investitori che sono – per definizione – speculatori, perché non sono schiere di babbi natale. E gli speculatori spostano il denaro dove rende di più.
In Grecia negli ultimi anni c’è stata una sbornia consumistica. Guardiamo i dati Eurostat: nel 2000 la percentuale media destinata dai cittadini greci al risparmio era del 2,5% (tanto per capirci in Italia era del 14,2%). Nel 2006 i greci destinavano un ridicolo 1,2% dei propri redditi al risparmio (contro 10,9% della media dell’Europa a 27 e il 14,9% dell’Italia). E nel 2009 il dato medio europeo è ancora cresciuto mentre quello greco si è abbassato. Con questi dati la conclusione è una sola: nessuno in Grecia si è sognato di risparmiare.
Sono cattivi i greci e i giapponesi sono buoni e saggi? Non è questa la differenza tra le due nazioni. La differenza vera è che mentre in Grecia i governi che si sono succeduti hanno deregolamentato, danazionalizzato, privatizzato e consegnato il Paese agli investitori esteri, i giapponesi hanno favorito la deregolamentazione a casa degli altri, guardandosi bene dal farla a casa propria. E, soprattutto, hanno mantenuto il primato della politica sull’economia. Gli speculatori sono l’alibi per i governi che hanno regalato lo Stato al mercato. Il mercato guarda i numeri non le persone. Dovremmo tenerlo presente.

La Teoria del Sistema Mondo

01 giovedì Apr 2010

Posted by Ars Longa in Una teoria economica neomarxista

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Arrighi, Economia, Gunder Frank, Neomarxismo, Samir Amin, Wallerstein

La teoria del Sistema Mondo è quella cui faccio riferimento nella mia ricerca e questo per due motivi: fornisce una chiave di lettura di “lunga durata” dello sviluppo economico e interpreta le ragioni dei flussi migratori.
La teoria nasce alla fine degli anni Ottanta del Novecento ed ha tre punti di riferimento: Immanuel Wallerstein, Samir Amin e Giovanni Arrighi. Si è parlato di una teoria neomarxista per il fatto che l’economia viene interpretata come la base del mondo – una specie di motore immobile che crea ogni altra pulsione – e che sia l’economia a determinare i fatti sociali. Però a parte il porre al centro della storia l’economia la teoria del Sistema Mondo è molto di più di un Neo-Marxismo.
In primo luogo a distinguere questa teoria dal marxismo classico c’è la questione delle origini dell’economia e quindi del capitalismo. Andre Gunder Frank sostiene che il primo Sistema Mondo si sarebbe formato addirittura nel 4000 a.C. il che sarebbe ben prima della nascita del capitalismo posta da Marx nell’Ottocento. Frank è certamente il più “estremista” tra gli studiosi che si rifanno a questa teoria ma anche gli altri – come Immanuel Wallerstein – pongono la nascita del capitalismo e quindi del sistema mondo al XVI secolo.
Trascurando per il momento Frank possiamo dire che il fondatore della teoria è stato Immanuel Wallerstein. Cosa è allora un Sistema Mondo per Wallerstein? Si tratterebbe di un insieme di meccanismi che ridistribuiscono le risorse economiche del pianeta a partire da un “centro” verso delle “periferie”. Il “centro” del sistema sono i Paesi più sviluppati e la “periferia” quelli meno sviluppati. Mentre il “centro” sviluppa la ricchezza attraverso l’industrializzazione, la “periferia” acquista importanza soltanto come luogo delle materie prime. In questo meccanismo di distribuzione ineguale il mercato e le sue leggi diventa il mezzo con il quale il “centro” sfrutta a suo vantaggio la “periferia”.
Il primo sistema mondo – come accennato – sarebbe sorto per Wallerstein nel periodo che va dal 1492 al 1640 (dalla scoperta delle Americhe alla Rivoluzione Inglese). Per la prima volta si sarebbe creato in questa epoca un “sistema sociale con confini, strutture, gruppi, regole di legittimazione e di coerenza. La cui vita è fatta di forze contrastanti che lo tengono insieme, da tensioni e lacerazioni provocate dagli interessi dei vari gruppi che in modo eterno tentano di rimodellarlo a proprio favore. Il Sistema Mondo ha le caratteristiche di un organismo con un ciclo di vita nel quale alcune caratteristiche rimangono immutate mentre altre rimangono stabili. Le sue strutture possono definirsi ed essere in tempi diversi forti o deboli a seconda della logica interna del suo funzionamento” (Wallerstein, The Modern World System, NYC, Academic Press, 1974, pp. 347-357). All’interno del Sistema Mondo vi sono delle caratteristiche temporali o meglio dei “ritmi ciclici” di breve termine ossia le fluttuazioni economiche e delle “tendenze di lungo periodo” come la crescita economica generale e il declino economico generalizzato. Vi sono poi quelle che Wallerstein chiama “contraddizioni” ossia delle controversie tra un ritmo ciclico di breve termine e una tendenza di lungo periodo. Per fare un esempio  un periodo di bassi consumi spinge verso il basso i salari dei lavoratori dipendenti e  aumenta il profitto di chi detiene il capitale sul breve periodo. Sul lungo periodo invece la diminuzione dei salari se si protrae troppo finisce per danneggiare la domanda di prodotto e quindi anche il capitalista. L’ultima caratteristica temporale del Sistema Mondo è la “crisi” ossia la fine del sistema a causa di una serie di circostanze che ne determinano la crisi irreversibile.

(continua)

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