Non a tutti i costi con Napolitano

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E di queste ore – ed è prevedibile che sarà il tema del prossimi giorni – la posizione assunta da Napolitano rispetto alla situazione politica. In buona sostanza il Presidente riafferma la sua contrarietà ad un voto anticipato, una riforma elettorale in senso maggioritario, l’inizio delle riforme costituzionali. Contemporaneamente fa capire in modo chiaro che, in caso contrario, potrebbe considerare le dimissioni. Questa ennesima esternazione nasce dalla difficile congiuntura nella quale si trova l’intero castello costruito all’indomani delle elezioni. È, infatti, venuto meno il disegno di creare un governo di larghe intese più o meno sul modello tedesco. Il “mostro” uscito dal disegno di Napolitano aveva due fragilità: tradiva gli elettori sia del PDL che del PD, poiché ambedue i partiti si erano presentati alle urne accentuando le incompatibilità e non certo i possibili punti di accordo. Soprattutto, però, la fragilità era dovuta al disegno fondamentale di tagliare fuori il Movimento Cinque Stelle. Se è vero che il M5S riesce benissimo da solo a marginalizzarsi è pur vero che non è credibile (nel pieno della stagione di crisi politica) mettere all’angolo il 25% dell’elettorato che ha votato Grillo. Appare evidente che il governo Letta sino ad ora ha fatto bene soltanto nelle public relation con Bruxelles, ed ha invece saputo far molto poco di effettivo.
Insomma il disegno di Napolitano è crollato. Ma sarebbe miope pensare che il crollo sia dovuto essenzialmente alle vergognose manovre di Berlusconi. A mio avviso la debolezza di Napolitano e dei suoi progetti è anzitutto un problema di legittimità. Beninteso non legittimità giuridicamente intesa ma legittimità politica. Napolitano è un Presidente di “terza scelta” o meglio di scelta disperata dopo l’affondamento di Marini, di Prodi e l’incomprensibile rifiuto del PD di convergere su Rodotà (che sarebbe stato il miglior presidente possibile). E quando diciamo di “terza scelta” abbiamo già detto tutto. Le condizioni stesse nelle quali si è realizzata la sua elezione ci si sarebbe attesi un profilo meno alto. Viceversa quello che è nato è – più che un governo Letta – un governo del Presidente. A tutto questo si è aggiunto il macigno della decisione della Corte Costituzionale intorno al Porcellum. Anche in questo caso non si può parlare di Parlamento giuridicamente illegittimo ma certamente si può parlare di illegittimità politica e morale. In questo quadro la pretesa di Napolitano di mandare avanti questo governo con l’argomento che “l’Europa ci guarda” è assolutamente sconcertante. Come può un Parlamento che, se pure nel pieno delle sue funzioni, è stato eletto in base ad una legge incostituzionale toccare la già violentata Costituzione? A mala pena questo governo potrebbe varare una legge elettorale anche se – sempre per una questione di etica politica – a mio avviso dovrebbe dimettersi domattina facendoci votare con il Mattarellum.
A questo punto la posizione di Napolitano non sembra più sul confine delle sue prerogative costituzionali, sembra che questo confine sia stato sorpassato. Non è possibile che un Presidente della Repubblica indichi le linee guida di un governo: non è il suo compito. Non è possibile che un Presidente della Repubblica eletto in un marasma imponga al Paese la propria linea utilizzando un governo eletto con una legge incostituzionale. In più la non velata minaccia di presentare le dimissioni ha il pessimo sapore di un ricatto, una sorta di “muoia Sansone con tutti i filistei”.
Per questo motivo occorrerebbe che a Sinistra ci si interrogasse seriamente. Non fa certo piacere che a contestare con maggior virulenza Napolitano siano Berlusconi e Grillo. Sarebbe però sbagliato – a questo punto – difendere l’indifendibilità di Napolitano perché chi lo osteggia non ci piace. Il mantra della stabilità che Napolitano ripete senza sosta è una foglia di fico spalmata di ipocrisia. La mai nata Seconda Repubblica è agonizzante, delegittimata, impresentabile. Per puntellarla il Presidente ha assunto un ruolo di protagonista che – a mio parere – la Costituzione non gli affida. Perciò stare dalla parte di Napolitano a tutti i costi non è possibile e non sarebbe un esercizio di responsabilità.
Occorre votare con una legge elettorale che ridia il senso della scelta ai cittadini. Occorre una classe politica pienamente legittima che faccia le scelte, anche dure, che occorre fare. Il senso del governo di un Paese non sta nel piacere alle capitali europee ma nel servire i cittadini che l’hanno espresso. Lo spauracchio agitato da Napolitano, e cioè che il voto non darebbe stabilità è sbagliato ed offensivo. Il popolo italiano non può essere considerato un “minus habens”, un minorenne che va consultato solo quando è comodo a delle istituzioni moralmente terremotate. Il tempo è poco. Lo scollamento tra cittadini ed istituzioni si allarga giorno dopo giorno. Aspettare di più significa dar ragione a coloro che cominciano a pensare che sarebbe meglio uno “stato d’eccezione”, una dittatura straordinaria magari configurata come un gabinetto di salvezza nazionale. Non c’è tempo.
Se per salvarci si dovrà perdere Napolitano e trovarci un altro Presidente della Repubblica eletto dopo un impeachment o dopo dimissioni volontarie del predecessore, credo che riusciremo a farcene tutti una ragione.

La ricetta del “New Regionalism” invade gli USA e chissà anche l’Europa

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Questo è il primo contributo di Ars Longa USA che inaugura una sezione di riflessioni su quanto sta accadendo dall’altra parte dell’Oceano nel campo della lotta per superare la crisi. Ars Longa USA vive negli Stati Uniti da venticinque anni e si occupa di pianificazione dei territori urbani. A breve cercheremo di dare la possibilità a lui e agli altri collaboratori la possibilità di postare direttamente gli interventi in modo tale che siano riconoscibili con immediatezza dai lettori. Cercheremo di introdurre questi ed altri cambiamenti in modo graduale cercando di migliorare la leggibilità complessiva del blog. Ogni suggerimento è gradito

Il 1952  fu l’ultimo anno di autosufficienza energetica americana. Da allora – e per vent’anni – il bisogno di energia venne soddisfatto attraverso gli acquisti effettuati nei Paesi del Golfo e soprattutto dall’Arabia Saudita. La crisi petrolifera del 1973 rimise tra le priorità di Washington l’autosufficienza. Gli sforzi per raggiungere il traguardo sono stati molto lenti ma hanno subito una accelerazione decisiva soltanto a partire dagli anni Novanta. Oggi il traguardo è a portata di mano e gli osservatori stimano che entro un decennio gli Stati Uniti non avranno più bisogno di acquistare petrolio. Manca poco: nel 2010 l’81% del fabbisogno è stato soddisfatto dalla produzione interna. I progressi di Washington sono evidenti se guardiamo all’altro indicatore significativo: dal 1999 ad oggi le importazioni sono calate del 22%.
Se entro il 2023 il risultato sarà raggiunto la conseguenza sarà una sola: anche il XXI secolo sarà un secolo americano. Il perché è semplice: ai prezzi odierni tutto ciò si tradurrà in un risparmio di 147 miliardi di dollari all’anno. Questo soltanto per ciò che riguarda i risparmi diretti. Altrettanto significativi sarebbero quelli indiretti. Attualmente gli Stati Uniti garantiscono gli equilibri del Medio Oriente attraverso un fiume di denaro. Al solo Egitto vanno annualmente 3,1 miliardi di dollari all’anno. Raggiungere l’autosufficienza energetica significa disimpegno dall’area e disimpegno significa risparmio.
Le conseguenza di questa politica ricadono interamente su quella che oggi viene chiamata nuova industrializzazione. La crisi ha avuto come conseguenza principale l’abbassamento del costo del lavoro negli Stati Uniti e si tratta di un abbassamento di lungo periodo. L’autosufficienza accoppierà a questa autosufficienza un costo molto conveniente dell’energia. In altri termini se anche il lavoratore statunitense costerà più del lavoratore cinese (ma la forbice è, appunto diminuita) la sua competenza, insieme ai bassi costi di produzione farà la differenza. Il movimento è già in atto e sempre più imprese americane stanno ritornando “a casa” attirate da questa combinazione. Un altro fattore si rivelerà decisivo in questo ritorno: l’abbassamento dei costi di trasporto delle merci rispetto alle imprese sparse per il mondo. Tutto ciò non significherà la fine della globalizzazione ma una modificazione importante. Le imprese statunitensi manterranno all’estero le produzioni a scarso valore tecnologico e riporteranno a casa quelle ad alto valore. Le variabili di questa situazione sono chiare: costo dell’energia, costo della formazione dei lavoratori, costo della logistica, costo del lavoro. Se le prime tre variabili diventano molto favorevoli, l’ultima ossia il costo del lavoro diviene la voce meno importante.
La discussione che si è aperta negli Stati Uniti ha investito in pieno le Università ed il sistema di insegnamento. Come negli anni Cinquanta, quando venne operato uno sforzo grandioso per vincere la corsa verso lo spazio contro l’Unione Sovietica che era partita in vantaggio, oggi sono le Università che risulteranno strategiche nel fornire nuovi sistemi di educazione permanente per studenti di nuovo tipo: lavoratori con un impiego full-time, con famiglia e tempi limitati. La sfida è riuscire a mantenere il più alto livello di competenze delle persone per tutta la durata della vita lavorativa. Sia Stanford che il MIT hanno iniziato a progettare nuove modalità di somministrazione dei corsi. L’idea è quella della “Quadruple Helix” ossia di uno stretto contatto operativo tra università, aziende, fondazioni, governo. Rispetto al passato questo contatto dovrà agire soprattutto a livello “regionale”. In altri termini le università locali dovranno collaborare con le aziende del loro territorio, le fondazioni dovranno incentivare e dirigere fondi sulla propria area e il governo entrerà in azione per finanziare queste collaborazioni “regionali”. L’obiettivo è riportare sui banchi (sempre più virtuali) il maggior numero di studenti maturi e di aumentarne le competenze durante tutto l’arco della esistenza. Per far questo è obbligatorio abbassare i costi altissimi dell’istruzione universitaria attraverso la collaborazione tra imprese, fondazioni e governo. Spostando il più possibile il carico economico dell’istruzione permanente dagli studenti alle imprese e al governo. Questo obiettivo dovrebbe essere raggiunto grazie ai fondi liberati dalla autosufficienza energetica. La Southern New Hampshire University ha lanciato da un paio d’anni un programma di rinnovamento dei classici modelli di insegnamento. Nel giro di due anni accademici gli iscritti sono aumentati di 12.000 unità. L’Università dell’Arizona ha varato un programma per promuovere la crescita di lavoratori super specializzati nelle nuove tecnologie soprattutto quelle delle energie rinnovabili. Il “regionalismo” della nuova industrializzazione americana sta assumendo sempre di più la caratteristica di adeguarsi alle condizioni delle aree nelle quali opera. Il tutto fa pensare a quelli che in Italia erano i “distretti” ma con una peculiarità: le specializzazioni delle aree vengono collegate alle situazioni dell’ambiente. Quando si parla di green-economy non si intende soltanto una economia meno inquinante ma, soprattutto, una economia sintonizzata con la morfologia dei territori. La “vocazione” delle aree non è determinata dalla volontà delle imprese di stabilirsi in una zona ma dalle condizioni favorevoli a determinate produzioni. Quel che sta accadendo negli Stati Uniti viene chiamato “New Regionalism”: piccole compagnie da 1.000-2.000 dipendenti strettamente legate in senso operativo con le multinazionali e destinate a lavorare in modo costante sulla innovazione. In questa logica Il lavoro a basso valore aggiunto, il semplice assemblaggio rimarranno una prerogativa dei lavoratori (stranieri) di basso livello e tutta l’area innovativa rimarrà all’interno del Paese. Questo movimento sta crescendo di giorno in giorno man mano che le risorse stanno disimpegnandosi da altri settori.
Il quadro che ne emerge per il futuro è quello di un grande cambiamento anche nella mentalità. Sino ad oggi, ogniqualvolta si presentava un problema, il motto nazionale è sempre stato “go west”, ossia “spostati” e la mobilità degli americani è diventata leggendaria. Il modello industriale del “New Regionalism” avrà bisogno di maggiore sedentarietà proprio perché è nella logica delle cose che interi settori industriali si sviluppino in determinate aree e in quelle stesse aree si affermino le agenzie educative specializzate in quei settori economici.
Se questo è il modello del futuro viene da domandarsi se sia applicabile anche fuori degli Stati Uniti. Nulla vieta che si possa pensare ad un “new regionalism” nei Paesi europei ma occorre creare un “set” di premesse. Il primo è l’abbassamento dei costi dell’energia che oggi in Europa costa mediamente tre volte rispetto agli USA. Il secondo è una profonda rivoluzione del sistema educativo. Il terzo la capacità di identificare le “vocazioni” del territorio non in base a decisioni politiche ma in base a oggettivi dati reali. Il quarto la volontà di favorire un modello di impresa che raggiunga pesi specifici superiori a quelli della piccola industria. Infine “last but not least” il “new regionalism” implica la determinazione di alzare in modo estremamente significativo il livello medio culturale di una intera nazione non soltanto in relazione al lavoro ma in senso complessivo. Una operazione così complessa che richiede molti anni è possibile solo a patto che sia  cosciente nell’intero corpo di una nazione, che vi sia la sensazione di un programma preciso per il raggiungimento di una meta comune, che vi sia una nuova “moralità” più che una “austerità”. Occorrerebbe che ciascun sentisse importante il proprio ruolo in una impresa comune, lo vedesse rispettato e rispettasse quello altrui al di là delle differenze di visione politica. Il cambiamento passa anche per un nuovo entusiasmo collettivo che per crearsi ha bisogno di una classe politica autorevole e costruttiva e di un corpo sociale cosciente del percorso intrapreso. Si tratta di prerequisiti difficili da raggiungere più difficili che non trovare le risorse economiche. Soltanto il futuro potrà dirci se anche in Europa saremo capaci di svilupparli innanzitutto in noi stessi.

Il ritorno di Poujade, ovvero questa non è la mia gente

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La memoria qualche vantaggio ce l’ha. Impedisce di scambiare il già visto per una novità. Ed il movimento dei forconi (e lasciatecelo chiamare così visto che un altro nome non c’è) è già successo da un’altra parte, in un altro tempo. Era il 23 luglio 1953 nella remota provincia francese una ventina di persone capitanate da un tal Pierre Poujade, impedirono agli agenti delle tasse di effettuare una verifica fiscale in un negozio. Mesi dopo nacque L’Unione di Difesa dei Commercianti e degli Artigiani (UDCA) che, diretta da Poujade, organizzò le proteste di quelli che definiva “uomini comuni”. Si era nella Quarta Repubblica, un periodo economicamente difficile per la Francia afflitta dall’inflazione e dalla trasformazione economica. Poujade presto trasformò il movimento da una protesta contro le tasse sul piccolo commercio e l’artigianato in qualcosa di più complesso. Si aggiunsero nuovi temi. Il primo fu quello della identità nazionale. Poujade sosteneva che questa era minacciata dalla “americanizzazione” (incarnata dai primi grandi magazzini). Il secondo tema era la classe politica. I politici – tutti indistintamente – erano ladri e truffatori e il parlamento era “il più grande bordello di Parigi”. Il terzo tema erano gli intellettuali, classe parassita ed inutile accusata di

Pierre Poujade

Pierre Poujade

aver sostenuto la perdita dell’Indocina e di voler favorire l’indipendenza dell’Algeria. Poi si individuarono i nemici esterni, le altre nazioni europee e gli Stati Uniti che avevano deciso di smembrare la Francia. Persino gli italiani erano sospettati di volersi riprendere la Corsica. Nel 1956 il movimento si presentò alle elezioni e conquistò 53 seggi parlamentari. Tra i deputati eletti c’era un giovanissimo Jean-Marie Le Pen.
Poujade e il suo movimento sopravvissero sino al 1958 e scomparvero abbastanza velocemente con l’avvento della Quinta Repubblica di De Gaulle. Alla base di tutto il ragionare di Poujade e dei suoi c’era l’idea che il popolo (e dal popolo si escludevano i salariati e si includevano solo commercianti, artigiani e liberi professionisti) avesse la capacità di risolvere i problemi economici e politici attraverso il “buon senso” opposto alle elucubrazioni degli intellettuali. Il mondo di Poujade era semplice, ogni soluzione netta e senza sfumature ma dettata dal “buon senso”. Roland Barthes in un famoso articolo contenuto nel suo libro Mythologies (tradotto in italiano con il titolo “Miti d’oggi”) ridicolizzò la favola del buon senso scrivendo: “il buon senso è come il cane da guardia delle equazioni piccolo-borghesi: tappa tutte le uscite dialettiche, definisce un mondo omogeneo, in cui si sia a casa propria, al riparo dai disordini e dalle fughe del «sogno» (s’intenda una visione non contabile delle cose) Poujade non è ancora arrivato a definire il buon senso come la filosofia generale dell’umanità; ai suoi occhi è ancora una virtù di classe, già data, è vero, come un ricostituente universale. È proprio quello che c’è di sinistro nel poujadismo: che abbia preteso dalla nascita a una verità mitologica e posto la cultura come una malattia; una posizione che è sintomo specifico dei fascismi”.
Nelle parole d’ordine, nelle dichiarazioni di questo o quel supposto capo dei “forconi” non è difficile vedere esattamente la fotocopia – a distanza di 60 anni – del poujadismo. Ma, come notava due giorni fa Roberto Ciccarelli su Il Manifesto, Poujade e i suoi bloccarono veramente la Francia perché suscitarono l’adesione della maggioranza delle categorie, i “forconi” non sembrano in grado di farlo anche perché (è il caso dell’autotrasporto) a scendere in piazza è un numero circoscritto di persone. Gli episodi inquietanti possono anche essere considerati episodici. Si può anche sorvolare sulle minacce ai commercianti che mantengono aperte le botteghe, ai camionisti che circolano, potremmo persino far finta di non aver sentito le affermazioni antisemite di oggi e la presenza di elementi riconducibili alla estrema destra. Ma anche sorvolando su tutto bisogna essere ciechi o stupidi per pensare che questo movimento sia l’alba di una rivoluzione proletaria. Occorre essere inguaribili romantici o profondamente in mala fede per associare tutto ciò ai movimenti no-global. Giorni fa il Comitato No-Dal Molin che si batte da anni contro l’ampliamento della base americana lo ha detto chiaramente: “che in piazza vi sia la destra, capeggiata dalle formazioni neofasciste italiane e da frange di ultras, è fuori discussione; non solo nei simboli, ma anche nelle parole d’ordine: perché la piazza non è solo contro la “casta”, ma anche contro l’altro: il carcerato, l’immigrato, lo sfrattato, e via dicendo. E, francamente, non è per urlare qualcosa contro qualcuno che, in questi anni, ci siamo mobilitati. Spazzar via un governo per dar spazio alla polizia e all’esercito – come sostiene il leader vicentino di Life, una delle sigle che organizza i blocchi stradali – non solo non ci pare particolarmente interessante, ma ci crea anche un certo disgusto”.

Il quotidiano dei poujadisti

Il quotidiano dei poujadisti

Ed è difficile dar torto a questa osservazione pensando alle manganellate agli studenti e ai dimostranti No-TAV in Val di Susa. All’Università di Roma e intorno ai cantieri dell’alta velocità nessun rappresentate delle forze dell’ordine s’è tolto il casco, anzi l’ha tenuto ben stretto mentre caricava. Allora viene da concludere con maggiore forza quanto si è scritto ieri qui: questa cosa non appartiene alla Sinistra, non appartiene a nessun movimento antimondialista e antagonista che nasce dalla Sinistra. Forse che Lucio Chiavegato, ex leader della LIFE (Liberi imprenditori federalisti europei) che si definisce uno che “combatte per l’Indipendenza del Veneto e la salvezza del Popolo Veneto” e che oggi organizza i blocchi ha qualcosa a che spartire con la Sinistra? Forse che Mariano Ferro, altro leader dei “Forconi, candidato con Forza Italia prima e poi sostenitore del MPA di Raffaele Lombardo ha qualche vicinanza con la Sinistra? Anche Poujade sosteneva di non essere “né di Destra, né di Sinistra” ma nelle sue file fece il suo apprendistato Le Pen. Se c’è chi fa finta di confondere i campi e vuole far credere che ci sia qualcosa che ha un apparentamento anche lontano tra questi “forconi” e le lotte che da Genova sino ad oggi i movimenti hanno condotto mente e sa di mentire. Chi invece pensa di poter cavalcare questa “rivolta di popolo” e dirigerla astutamente guidandola verso l’anticapitalismo ha capito ben poco. Questo movimento ha già i suoi obiettivi e ha già pronti coloro che stanno per poggiarci il cappello ed è un cappello che viene dalla Destra. Ognuno ha il diritto di fare ciò che crede ma non ha il diritto di truccare le carte e far credere che questa roba sia qualcosa che appartiene alla Sinistra.

Il forcone e il capitale

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Ho percorso duecento chilometri in auto negli ultimi due giorni ed ho trovato due blocchi del cosiddetto movimento dei forconi. Qualcuno ci vede il baluginare della rivolta che verrà, io ho visto la ripetizione di una tradizione italiana vecchia di un migliaio d’anni: la rivolta per il pane, l’assalto ai forni. Ho visto gente che ha perso tutti i contenitori politici nei quali era transitata. Ho visto gente smarrita non l’avanguardia rivoluzionaria. Ma so che alcuni ci hanno ricamato sopra una teoria e la teoria dice che questi 30.000 (ma facciamo anche 50.000 o 100.000) sarebbero l’avanguardia della massa che verrà. La teoria dice che questi protestanti – presto o tardi – diventeranno anticapitalisti perché capiranno che il capitalismo li sta massacrando. E così diventeranno anticapitaliste le masse che se ne stanno a casa oggi non appena la crisi morderà le loro “sicurezze”.
Questo dice la teoria. Solo che la teoria non funzionerà. Perché non funzionano così le cose.
A quei blocchi nessuno pensava minimamente al capitalismo o all’anticapitalismo. C’era gente che aveva perso qualcosa e la rivoleva indietro. E rivolevano indietro quel che avevano vissuto: un posto non troppo freddo ai margini del capitalismo. Un posto che – sono convinti – gli è stato tolto dalle iniquità dei governi, dalla mancanza di politiche protezioniste, dall’Europa, dalle tasse.
E mi è venuto da pensare al fenomeno del cambiamento dei consumi di stupefacenti negli ultimi quarant’anni. Che centra? C’entra. Negli anni ’70 ci si faceva di eroina e di acidi lisergici. Ci si faceva di droghe che ti sparavano fuori da un mondo che si sentiva profondamente ingiusto e nel quale non si voleva rimanere. Dietro c’era tutto un movimento tra il culturale e il politico che postulava il rifiuto radicale dei modi di essere e di consumare. Dagli anni ’80 ha preso piede la cocaina e tutta la larga famiglia delle anfetamine. La droga che aiuta non a fuggire dal mondo ma a restarci e ad essere “performante”. Una droga sintonizzata sulla necessità di dimostrare di essere sempre sveglio, attivo. concorrenziale.
Guardavo la gente ai blocchi e pensavo che quella gente che mi dava i loro volantini volevano una sola cosa: essere di nuovo parte di un capitalismo che funziona. Non sanno come fare, non hanno le idee chiarissime ma due o tre concetti più o meno interiorizzati: sovranità popolare, lotta ai burocrati europei, lotta alla classe politica.
Guardavo i carabinieri alla curva della rotatoria. Immobili, passivi, lasciavano che il blocco ci fosse ma fosse “ragionevole”. Fermali sì ma poi falli passare dopo una decina di minuti. Ci ho parlato per un po’. La maggioranza faceva fatica ad articolarmi un discorso omogeneo. Quello che usciva fuori era un “prima” (quando si stava bene) e un “adesso” nel quale si sta male. Ridateci quello che avevamo, ridateci il capitalismo ben temperato. Segni di anticapitalismo? Nessuno. Neppure una briciola sparsa di luddismo.
Le facce smarrite e incazzate raccontavano soltanto la sorpresa e la paura di essere tagliati fuori definitivamente dalla fonte di ogni delizia. Non erano persone che si stavano riappropriando del loro essere cittadini ma, piuttosto, gente che rivoleva essere consumatori. Uno mi ha detto che voleva la meritocrazia e voleva che i migranti (non usava questo termine però) se me tornassero a casa loro. Un altro voleva uscire dall’Europa perché così saremmo stati di nuovo “padroni in casa nostra”. Padroni per fare che? Per tornare a consumare.
Era gente che non sa che una economia anticapitalista non prevede la Audi ma semmai una versione moderna della Trabant. Perché se “da ognuno secondo le proprie capacita’, ad ognuno secondo i propri bisogni”. Si tratta di ridistribuire equamente le risorse e la fettina di torta per ciascuno sarà uguale ma non sarà grande. Ma non volevano una cosa del genere, volevano esattamente la fetta che avevano prima. Volevano – appunto – un capitalismo come quello nel quale avevano nuotato sino a ieri. Volevano ricominciare a vendere per poi consumare, per poi vendere ancora e consumare di nuovo.
Io ho visto gente che rivoleva la gabbia perché neppure sa di essere in gabbia. Non c’era l’idea di un modello alternativo, c’era solo un urlo sottinteso: “rimettete in moto la macchina”. E la macchina si chiama capitale.
Non pretendo coscienze sociali che non si possono chiedere. Ma se questa che ho visto era l’avanguardia posso agevolmente immaginarmi la massa alla cui testa si muove. Non c’è nessuna parentela con l’iconografia di Pellizza da Volpedo.
Mi si dirà che non si può dividere la lotta anticapitalista cosciente dalla protesta per l’impoverimento. Non si può se si pensa che la massa passerà dallo stadio della lotta protestataria alla scoperta della lotta contro il capitale. E chi dice e su quali basi lo afferma che questa gente che ho visto, incazzata per ciò che ha perso,  maturerà anche la più pallida idea di un modello differente? Certo magari in qualche testo teorico avviene anche questo miracolo. Ma siamo nel mondo.
E il mondo ha visto i tedeschi dell’Est nel 1989 passare il muro e correre a rotta di collo verso il più vicino supermercato di Berlino Ovest. Ed è lo stesso mondo che a Kiev vede un bel po’ di dimostranti scendere in piazza per poter entrare in Europa e non rimanere nell’orbita dei satrapi russi. Naturalmente giusto per far capire che vogliono il capitalismo tirano giù l’ultima statua di Lenin ancora in piedi. Un’altra lotta sacrosanta contro il totalitarismo, o una lotta per entrare nel mondo del capitalismo ben temperato?
Ho visto gente accomunata dal comune scivolamento all’indietro della propria possibilità di essere dentro alla macchina del consumo. E a proposito di macchine, uno mi ha detto che ha dovuto vendersi la Golf GTI che con tanti sacrifici s’era comprato. Una per farmi riflettere sul suo scivolamento all’indietro mi ha detto che tutti gli anni riusciva ad andare a farsi una settimana a Sharm-el-Sheik (abbreviato “Sciarm” con la stessa pronuncia di “sciampista”) e che ora non aveva i soldi per pagarsi il mutuo.
Ed allora ho capito che per dissolvere questo prodromo di “rivoluzione” basterebbe un cambiamento di congiuntura, un po’ più di PIL.
Qualcuno mi ha detto che se non cambierà qualcosa, l’Italia diventerà come la Grecia. Ossia, voleva dire, ci ribelleremo come i greci. Lui crede che ci sia una rivoluzione in Grecia. Esattamente come quelli che credono che quanto è accaduto sia il primo raggio della rivoluzione anticapitalista.
Sarebbe anche bello, ma non è così. Non è così perché nessuno aveva in mente un modello alternativo. E nessuno delle persone che ho visto a quei blocchi metteva in dubbio il modello cui si aggrappava.
Non ci sarà nessuna rivoluzione. Non ci sarà tra un mese, tra un anno o tra dieci. La scorciatoia non arriverà. Perché una rivoluzione, quella vera, è il frutto di un lungo lavoro di penetrazione di idee differenti lungo l’arco di decenni. Voltaire iniziò a scrivere nel 1716 e morì senza aver visto la Rivoluzione che aveva contribuito a rendere cosciente. Qualcuno mi dirà che il rivoltoso che assaliva la Bastiglia nulla sapeva magari di Voltaire. È probabile, anzi, quasi certo. Ma ciononostante quel rivoluzionario aveva chiaro in mente che non voleva più essere parte del regime che assaliva. Ne voleva uno che fosse diverso, non voleva star meglio in quello che c’era.
Perché se è vero che la rivoluzione non è un pranzo di gala, è anche vero che non si improvvisa. Quando si improvvisa è una italica rivolta per il pane: quando cala il prezzo tutti se ne tornano a casa.

Il Biscotto Ringo

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Quando è iniziato il nuovo tormentone delle primarie del PD (due primarie in un anno, giusto per non farsi mancare nulla) e ho visto i candidati mi è venuto il buonumore. Adesso che Renzi ha vinto oscurando l’altro inverecondo tormentone su Mandela, sono al settimo cielo. Certo, questa gioia va spiegata se no mi si può prendere per pazza.
Ho tifato Renzi perché da subito ho capito quale era la vera ideologia renziana. L’ho capito guardando con attenzione il simbolo, quella “R”, più la guardavo più mi domandavo dove l’avevo già vista. Poi l’ho capito: il Biscotto Ringo. Quella “R” era quasi identica e forse non era un caso. Il Biscotto Ringo era nato da una idea di marketing degli anni Sessanta: vaniglia e cioccolato, bianco e nero, i diversi riuniti, la realizzazione di una impossibilità: la riunione degli opposti in una unica, dolce melassa. Ringo_logo
La lunga traversata nel deserto iniziata con Achille Occhetto (classe 1936) è finita con Renzi (classe 1975). Adesso nessuno in buona fede, nessuno anche se sordo, cieco e muto, nessuno senza turbe psichiche potrà più affermare senza arrossire che il PD è un partito di Sinistra. Non si poteva dire neppure prima ma qualcuno poteva fingere dietro la formula “centrosinistra” di non aver capito la realtà.
L’ideologia del Biscotto Ringo ha impiegato venti anni per permeare di sé la carcassa immarcescita del PCI. Qualcuno oggi prova a venderci l’idea di una rottura epocale tra una generazione e l’altra. Renzi contro D’Alema, la bufala del decennio è, appunto, una bufala. Non perché tra i due non vi sia una contrapposizione personale (che c’è) ma, piuttosto, perché D’Alema è l’iniziatore della distruzione della Sinistra all’interno delle diverse incarnazioni di quello che è oggi il PD.
Per tutto questo oggi è un buon giorno per tutti quelli che ancora si pensano con onestà di Sinistra. Perché si è sciolta l’ambiguità residua che si ostinava a collocare il PD nella tradizione della Sinistra. Non c’è mai stato dubbio che Beppe Civati avrebbe raccolto ben poco. Ed è stato un bene perché Civati avrebbe continuato a coltivare il malinteso della collocazione a Sinistra del PD. Campagna elettorale delle Primarie per la segreteria del PDL’elezione a segretario di Renzi è l’alba  che sorge dopo la notte dei lunghi coltelli in salsa PD. Renzi ha fatto fuori i liquidatori del PCI ed ha chiuso il cerchio di una storia lunga vent’anni di annacquamento e di lavaggio socialdemocratico di un partito che fu di Sinistra.
I giorni che seguiranno mostreranno, alba dopo alba, quanto la retorica buonista del “piagni e fotti” sia insita nell’ideologia del Biscotto Ringo che Renzi si prepara a inaugurare. Chi si augurava (e magari ci credeva) di non morire democristiano sappia che ciò che sta arrivando è molto peggio della Democrazia Cristiana. Perché l’ideologia del Biscotto Ringo prevede che si sostenga il superamento delle differenze e delle diseguaglianze a livello retorico e si persegua la modernizzazione della società nel solito senso capitalistico e neoliberista a livello pratico. La storia si ripete come farsa dopo essere stata tragedia. L’abbiamo già vista nel Regno Unito con Tony Blair. Blair aveva 41 anni quando prese in mano il Labour. Renzi ne ha 38. Dove sia andato il New Labour lo sappiamo. Per Blair non fu una passeggiata rendere liberista i laburisti, era un partito ancora sano e le resistenze ci furono. Renzi avrà vita più facile, il PD ha già digerito da anni il Biscotto Ringo messo nel forno da Veltroni anni fa.
Ho dei dubbi che la Sinistra raccoglierà l’occasione che oggi si presenta. Ma lo spero. Spero cioè che ci sia una parte dei miei connazionali che sappia far di conto politico. Che veda con chiarezza che il PD e la sua propaggine vendoliana non hanno più nulla di Sinistra. Si è rotto il legame, si è rotta anche l’ipocrisia del legame tra la Sinistra e quel che abbiamo davanti. Se la Sinistra sparsa, litigiosa, depressa e sfiduciata, spaccata in mille rivoli para-ideologici, capitanata da vecchi leader ripetutamente trombati, ritrovasse sé stessa davanti al Biscotto Ringo che avanza, i prossimi giorni, mesi ed anni potrebbero essere esaltanti e costruttivi. Non ci sono più alibi per chi si sente e sa di essere di Sinistra per ritrovare un percorso comune.

IL MANDELA DI PLASTICA

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Sino al 15 dicembre folle di statisti si daranno il cambio per elogiare la vita di Nelson Rolihlahla Mandela. La cifra unica delle commemorazioni è quella della santificazione dell’uomo della pace. In una orgia di ipocrisia consumata sul corpo del capo dell’African National Congress. Non potrebbe essere altrimenti perché questo mito, fatto crescere da una banda di rockettari con a capo un altro monumento all’ipocrisia come Paul David Hewson “Bono”, è stato coltivato e istituzionalizzato da un’altra banda di ipocriti, che distribuisce a casaccio il Premio Nobel per la Pace.
Quello che si vuole nascondere è che Mandela non fu un pacifista, non fu il Ghandi dell’Africa. Fu un combattente della lotta armata per la liberazione del suo popolo. I suoi anni nelle galere del Sudafrica razzista furono determinati da un cumulo di false accuse. Tuttavia Mandela rivendicò le azioni di sabotaggio che gli erano state imputate. Rifiutò negli anni Ottanta di essere scarcerato non volendo dichiarare la sua rinuncia alla lotta armata.
La sterilizzazione della vita di Mandela oggi fa comodo ad attempati presidenti e  a  tutte le cariatidi del potere che hanno messo in moto la macchina della falsificazione storica. Non è comodo ricordare il Mandela capo di una organizzazione armata di sovversione. Meglio un Mandela di plastica manipolabile dai discorsi del Trio Lescano del PD (Cuperlo, Civati, Renzi) che alla vigilia del “voto” possono sciorinare ulteriori scemenze tardo-pacifiste. Un Mandela di plastica si aggirerà per i canali televisivi sino al 15 dicembre. Un altro nero (impallidito) userà la tribuna del funerale per raccontare quanto l’America si batta per la libertà del mondo. Tutto mentre l’Africa è in fiamme distrutta due volte, dalla colonizzazione prima e dalla decolonizzazione poi. Sfruttata sino alle ossa e depredata delle sue ricchezze naturali e perciò mantenuta in uno stato di guerra endemica alimentata dal commercio di armi. Il lutto reale non sta nella ormai prevedibile morte di Mandela ma nella trasformazione definitiva di un rivoluzionario in qualcosa che non fu, un pacifista innocuo per il potere.

Legittimamente costituzionali, moralmente illegittimi

Gli avvenimenti di queste ore hanno riesumato la parola “legittimità”. I fatti sono noti a tutti. La sentenza della Corte Costituzionale ha stabilito (ma attenzione: abbiamo solo un comunicato stampa) che la legge elettorale conosciuta come Porcellum è illegittima dal punto di vista costituzionale per quelle parti che introducono il premio di maggioranza e quelle che non danno facoltà agli elettori di esprimere il nome del proprio candidato. Da ciò alcuni deducono (Movimento 5 Stelle, alcuni esponenti di Forza Italia) che il Parlamento, eletto con quel sistema elettorale, è illegittimo a sua volta essendo stato generato da una legge incostituzionale. Quindi tutti a casa e nuove elezioni con la legge elettorale precedente, il Mattarellum.
Questa linea di pensiero non distingue due piani: la legittimità morale e la legittimità giuridica.
Da un punto di vista giuridico definire illegittimo il Parlamento è un non senso. Pur con una legge incostituzionale il voto dei cittadini è stato espresso in modo legittimo. Non è stata annullata la possibilità di esprimere un voto tra diverse forze politiche. Semmai questa possibilità è stata limitata e distorta in base alla legge oggi giudicata incostituzionale. Per questo motivo la Corte ha invitato questo Parlamento in carica a rivedere la legge. In più la pronuncia della Corte non può essere retroattiva. Se lo fosse si aprirebbe una situazione assurda, visto che (se non sbaglio) ben tre elezioni si sono tenute utilizzando il Porcellum. Sarebbero allora nulle tutte le leggi votate dagli ultimi tre parlamenti? Bisognerebbe riportare le lancette dell’orologio al giorno precedente l’introduzione del Porcellum? Ovviamente non si può fare. Per questo motivo invocare la illegittimità giuridica dell’attuale Parlamento è una grullagine.
Sul piano morale le cose sono diverse perché aperte a diverse valutazioni. Per esemplificare ci troviamo in una situazione assai simile alla vicenda che ha visto coinvolto il ministro Cancellieri e la famiglia Ligresti. In questo caso il ministro aveva la facoltà di interessarsi al caso di una persona detenuta? Ovviamente sì. Per ciò giuridicamente il suo interessamento non presenta criteri di illegalità. Moralmente però chiunque sa perfettamente che il ministro non è solito interessarsi con lo stesso ardore amicale del caso, poniamo, dell’oscuro detenuto con un cognome meno noto di quello della figlia di Ligresti. Perciò ciò che è giuridicamente lecito non è, automaticamente, moralmente lecito o, se volete, opportuno e desiderabile.
Questo Parlamento è legalmente legittimo ed opera nel pieno delle sue funzioni ma è moralmente e – soprattutto – politicamente illegittimo. Non è alle leggi che si dovrebbe far appello ma al senso di dirittura morale che i rappresentanti dei cittadini dovrebbero vantare. Che ciò sia una speranza ingenua non serve spiegarlo.
Ciò detto vi è un’altra questione. La pronuncia della Corte ha un sapore di ipocrisia netto e preciso. La Costituzione – che la Corte dovrebbe difendere e che molti utilizzano con feticismo politico – viene violata e cambiata a seconda delle strategie politiche e conservata laddove non interferisce con un più vasto disegno di adeguamento alle necessità del capitale. L’inserimento dell’obbligo del pareggio di bilancio è il maggiore scandalo in questo senso. Vale la pena ricordare alcuni fatti. Ad introdurre il principio del pareggio di bilancio nelle costituzioni delle nazioni aderenti alla UE è stato il Patto Europlus che – prestateci attenzione – non è un patto giuridicamente vincolante e che è stato adottato nel marzo 2011 senza alcuna consultazione popolare o altra forma democratica di assenso. Con esso ci si è accordati nel senso di recepire nelle Costituzioni l’obbligo del pareggio di bilancio. Appare chiaro che questa operazione di stravolgimento della Costituzione non ha trovato la Corte attenta ma, semmai, addormentata. Ma non basta. La direttiva 2011/85/UE entrata in vigore nel novembre 2011 ha fissato le regole tecniche. A questo si è aggiunto il Trattato sulla stabilità che conosciamo come fiscal compact che – ancora una volta – è stato concordato al di fuori della cornice giuridica dei Trattati – all’articolo 3 ha impegnato i Paesi contraenti a introdurre il pareggio di bilancio in Costituzione.
Ora, a me pare, abbastanza semplice dedurre da tutto ciò che il concetto di legittimità costituzionale è una favola da raccontare ai bambini prima di metterli a letto. E ciò perché o si difende la legittimità costituzionale o non la si difende. Non è possibile che la Corte Costituzionale, di fronte all’inserimento di una norma in Costituzione rimanga silente. Tanto più se quella norma non è frutto di Trattati legalmente vincolanti ma frutto di decisioni prese dai vertici dello Stato in accordo con i vertici della UE senza alcun controllo democratico. In questo caso non ha eccepito nulla il Presidente della Repubblica Napolitano che di queste manovre è consapevole complice. Il tutto votato da un Parlamento eletto con il Porcellum e quindi giuridicamente nel pieno delle sue funzioni ma politicamente delegittimato. Mentre a governare era Silvio Berlusconi. Quello stesso Silvio Berlusconi che oggi sta cercando di accreditarsi come “nemico dell’Euro” e che utilizzerà il tema della uscita dall’Euro come cavallo di battaglia per la sua campagna elettorale ci ha profondamente incistati dentro il meccanismo del fiscal compact. Poco importa che oggi qualche miserabile economista giochi e giocherà a fare l’utile idiota di Berlusconi. Quel che importa è che si sappia che gioire oggi per la decisione della Consulta significa non avere occhi per vedere che la Costituzione non è più la linea del Piave su cui costruire una difesa: la Costituzione è stata ed è violentata da una pletora di personaggi giuridicamente nel pieno delle loro funzioni e nel pieno di una illegittimità politica e morale.

PS. Potete consultare il Trattato sulla stabilità qui e il Patto Europlus qui.

Dopo una pausa

Ci siamo presi una lunga pausa. Serviva per metabolizzare l’esperienza fatta sino a questo momento e per capire quale potesse essere la direzione giusta. Il problema che abbiamo avvertito era principalmente quello del rischio di lasciarci ingabbiare in una agenda che non ci appartiene e che viene dettata da altri.
Ci riferiamo in particolare alla questione dell’Euro. Nei mesi passati siamo stati presenti in questa discussione con un crescente senso di disagio. Ci sembrava – e ci sembra – che il dibattito intorno all’Euro abbia assunto due caratteristiche. La prima caratteristica è che essa sia animata da personaggi che, nella migliore delle ipotesi, appaiono fortemente opachi e, nella peggiore, decisamente non credibili. La crisi economica che stiamo vivendo tutti da molti anni avrebbe dovuto sollevare il velo sulle inconsistenze culturali della cosiddetta scienza economica e degli economisti. A nostro avviso paradossalmente, anziché essere travolti dalla crisi gli economisti hanno continuato ad essere visti come credibili punti di riferimento. Questa stranezza ha permesso, in Italia e non solo, ad alcuni soggetti di travestirsi. Travestimenti che sembrano essere efficaci. Tanto efficaci che oggi vediamo con un certo sgomento economisti che per anni hanno taciuto sul tema ergersi a fieri avversari dell’Euro. Con lo stesso sgomento abbiamo visto questi stessi economisti proporre ricette esondando dalla loro professione al campo della politica. Ci è parso incredibile leggere ammissioni di totale ignoranza delle teorie economiche marxiste e, contemporaneamente, proporre critiche bizzarre alla Sinistra. In un crescendo di ignoranza, malafede ed arroganza abbiamo assistito al crescere di personaggi che hanno usato tutto l’armamentario dei luoghi comuni per trasmettere immagini distorte della realtà. L’esempio più evidente è stato quello di assimilare la Sinistra al PD come se questo potesse essere oggi un partito della Sinistra. Abbiamo visto riemergere politici decotti e con sentenze passate in giudicato che, lungi dal prendere atto della propria impresentabilità, si propongono come animatori di salotti antieuro. E, negli ultimi tempi, sembra che si sia innescata la corsa, la gara a chi è più fermamente contrario all’Euro. Insomma ci è parso di essere dinanzi ad un 25 aprile che cancella tutti i fautori dell’Euro e li trasforma in interessati alfieri di quello che potrebbe diventare il prossimo “mainstream” politico-economico.
Laddove c’è odore di sangue accorrono iene ed avvoltoi. E le ultime notizie fanno credere fortemente che la “nuova” Forza Italia dell’immarcescibile Berlusconi utilizzerà a piene mani proprio la questione della “uscita dall’Euro” come elemento cardine per riprendere i consensi perduti.
A noi l’Euro non è mai piaciuto. Ciononostante gli antieuristi che sono spuntati in questi mesi ci piacciono ancora meno. A prescindere dalla sgradevolezza umana di alcuni, ci rimane forte la convinzione che quel che sta accadendo sia il tentativo di salvare i protagonisti del disastro economico con un mutamento di casacca in corsa. Il mantra del no-euro ha trovato nella Germania il nemico esterno per ricompattare forze sociali ed individui che dovrebbero sedere sul banco dei responsabili se non degli imputati. Degli economisti – improvvisamente e stranamente convertiti dopo anni di vita facile in convegni sponsorizzati dalla UE – abbiamo già detto. Ma sono storie personali tanto miserabili da essere risibili. Più grave è che l’opposizione anti-euro veda salvarsi una classe padronale che più che essere imprenditrice è stata prenditrice. Inetti capitani coraggiosi di grandi, medie e piccole dimensioni che hanno contribuito a smantellare lo stato sociale, a sfruttare i migranti per abbassare il costo del lavoro e ad arricchirsi per tutto l’abbondante decennio trascorso dalla introduzione dell’Euro. Ma questi soggetti hanno ottima compagnia. Una legione di bottegai e microimprenditori che, dal giorno dell’introduzione dell’Euro, hanno fissato il costo dei beni primari devastando il potere di acquisto prima ancora dell’arrivo della crisi. L’ultima tazzina di caffè pagata in vecchia valuta ci costò 1500 lire. Il giorno dopo ci si sarebbe aspettati di pagarla 0,77 euro ma era già a 0,80 perché l’arte di arrotondare è stata applicata con grande precisione. Da allora – e molto prima di qualsiasi crisi – il prezzo è arrivato ad un euro ed è notizia di questi giorni che (ma qui si può dar colpa alla crisi) salirà sino all’euro e cinquanta laddove già costa di più. Ma la tazzina del caffè è solo l’esempio più visibile della corsa all’arricchimento che alcune classi sociali hanno promosso in questi anni. Il tutto mentre le classi sociali più deboli – ossia quelle a reddito fisso – venivano lasciate scivolare verso il basso. Agli imprenditori e ai bottegai si sono aggiunti i politici che, anno dopo anno, hanno sposato le più infami teorie neoliberiste procedendo alla privatizzazione di settori vitali per il mantenimento dello stato sociale. Sino ad arrivare all’attacco frontale a beni indisponibili come l’acqua. La lunga stagione di un capitalismo liberato da ogni vincolo ha devastato assetti e magre sicurezze sociali. Giocando sulla pelle delle persone si è imbarbarito il mercato del lavoro precarizzando tutti e tutto. Si è promosso il darwinismo sociale mascherandolo dietro infami parole come “meritocrazia” e “concorrenza”. Si è fatta balenare l’idea di una società “aperta” alle possibilità individuali e pronta a promuovere il “merito”. Il tutto mentre l’ascensore sociale veniva bloccato distruggendo la scuola e l’università.
La composita falange degli antieuristi oggi vede il coagularsi di forze sociali e politiche reazionarie che, grazie al comodo alibi della Germania, possono presentarsi come i salvatori di una società che hanno ampiamente contribuito a smantellare. Gente che ha accumulato diritti sbarazzandosi di ogni dovere. Si riciclano intere professioni: dai banchieri agli amministratori locali che hanno giocato alla finanza tossica. I cattivi tedeschi stanno assolvendo tutti. Ed in questo clima fioriscono neo-nazionalisti che – giocando sulla falsità della scomparsa della Destra e della Sinistra – chiamano a raccolta indistintamente tutti sotto le bandiere di un neo-Risorgimento ancora più falso di quello che unificò l’Italia a beneficio delle classi dirigenti dell’epoca. L’opposizione all’Euro è diventata così una gigantesca arma di distrazione di massa. Non sono messi in questione i fondamenti disumanizzanti della società capitalista moderna, viceversa nessuno avanza il pensiero che sia la trasformazione del capitalismo il cuore del problema. La maggior parte degli antieuristi è saldamente ancorata agli stessi dogmi liberisti che apparentemente sembrerebbe combattere. Questa gente propone un capitalismo ben temperato, funzionante e efficace. L’obiettivo è far ripartire il PIL con la scusa che è la crescita che ci salverà.
E non è un caso che in questi mesi più di uno di questi miserabili personaggi abbia attaccato chi di questo capitalismo è da tempo critico. Lo schieramento anticapitalista vede oggi in prima fila sociologi ed antropologi come Gallino, Harvey, Sennett, Augé, Sassen e molti altri. Gente attiva da decenni e non da poco tempo. Gente che non ha mai avuto collusioni. Si è arrivati al punto di domandarsi se ci servono gli antropologi e i sociologi. Si è toccato così il fondo non solo della cattiva fede ma ci si è avventurati nella regione dell’infamia.
Purtroppo a Sinistra la reazione è stata flebile e, spesso, sorprendentemente contraddittoria. Alcuni hanno visto nell’antieurismo il “passaggio di fase”, la ruota dentata del capitalismo nella quale gettare sabbia per cominciare la rivoluzione. In questo modo si è soltanto cominciato a consumare un altro abbaglio, uno dei tanti della storia della Sinistra. Poiché la pancia della massa comincia a lamentarsi alcuni hanno pensato di intravvedere in questo il primo rumore di una rivolta popolare. Una rivolta da promuovere alleandosi con tutti i più improbabili compagni di viaggio. Anche qui si è spacciata la menzogna della fine delle ideologie. Si è teorizzato il “tanto peggio, tanto meglio”, si è riesumata l’idea di potersi alleare con gli scantinati dell’estrema destra. Il tutto rottamando concetti come l’antifascismo. Non tutto è però così sconsolante a Sinistra. Ci sono ancora molti che hanno ben chiaro come il carrozzone antieurista sia oggi solo una armata brancaleone di finti oppositori alle logiche del capitale. Hanno ben chiaro che si sta solo costruendo una “arca di Noé” per traghettare tutti sull’altra sponda del capitalismo. Molti a Sinistra hanno ben chiara l’idea che questa sia una fase di trasformazione del capitalismo. La terza fase dopo la grande crisi del 1873 e quella del 1929. Molti hanno ben chiaro che ciò che è crisi e sofferenza per le classi subalterne è trasformazione e potenziamento della macchina capitalista. A Sinistra c’è ancora un robusto numero di persone che non ha abboccato e non si è lasciata ipnotizzare dalla polemica antieurista e che non ha nessuna intenzione di partecipare all’aggiustamento del sistema. E questa è anche la nostra posizione: non siamo a favore dell’Euro e, contemporaneamente, pensiamo che l’Euro sia un aspetto operativo del capitalismo moderno. Crediamo sia un errore concentrare lo sforzo su un aspetto dell’intera macchina del capitale e non vogliamo essere complici del salvataggio di singoli e gruppi che portano su di sé la responsabilità dei disastri. Per questo non saremo complici di economisti furbescamente antieuristi  né reggicoda del sistema politico eurista. La critica o è complessiva o è miserabile tattica.
Non ci sono scorciatoie e neppure accelerazioni o tigri da cavalcare. Nulla può sostituire il noioso e lento lavoro di opposizione sistematica, personale, culturale, di massa, a questa idea di società. Non c’è un Palazzo d’Inverno cui dare l’assalto, c’è un modello di società disumana da scardinare, da mettere a nudo in ogni sua aspetto. Creando consapevolezza, riflessione, dibattito e, di conseguenza, opposizione.
Per questo dopo la nostra pausa abbiamo deciso di tornare a scrivere anche con la consapevolezza che si tratta soltanto di gocce di pensiero critico.
Operativamente molto di quello che abbiamo fatto in passato rimarrà. Si aggiungeranno nuove aree di discussione e nuovi argomenti. Abbiamo “arruolato” altre persone con altre competenze e speriamo di coprire aree che abbiamo trascurato in passato. A rileggerci.

Parola di tedesco: il successo della Merkel e il fallimento degli anti-euro

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Professione: giornalista, commentatore politico, nazionalità tedesca, casa in Toscana da vent’anni e moglie italiana da qualcuno in più. Questi i punti salienti di ArsLonga-Germania. Lo abbiamo già intervistato ad agosto e ora gli chiediamo un parere a proposito delle elezoni in Germania.

Nella scorsa intervista ci avevi detto che dalle elezioni non ti aspettavi nulla di nuovo. Pare tu abbia indovinato, ammesso che il forte risultato della Merkel non rappresenti una novità….

Si tratta di una novità soltanto per i commentatori stranieri che volevano mettere un po’ di pepe in una campagna elettorale che è stata totalmente insipida. La Merkel aveva già vinto prima che si aprissero le urne. Certo il dato è straordinario ma solo apparentemente. In nessun Paese un governo che ha fatto bene, che ha garantito sicurezza e prosperità in una tempesta economica verrebbe mandato a casa. La Merkel è semplicemente andata all’incasso.
Però – prima delle elezioni – qualcuno parlava dell’incognita della AfD, il partito che propugnava l’uscita dall’Euro, come di una minaccia reale … come mai si è sgonfiato?

Non si è sgonfiato: si è gonfiato al suo massimo, più di così non poteva prendere. Chi safare le analisi politiche in modo corretto non aveva mai scommesso un centesimo sulla AfD. Bastava guardare chi lo guida: Bernd Lucke. Un ex consulente della Banca Mondiale, uno dentro ai meccanismi del neoliberismo estremo. Un gruppo di professorini, Blankart, Gauland, Hankel, Homburg usciti fuori dalle università a caccia di notorietà su di un tema che pensavano fosse caldo. In primo luogo non era un tema caldo, in secondo luogo sono stati fin troppo presuntuosi.

Presuntuosi in che senso?

Nel senso che hanno pensato di farcela in perfetta solitudine. Quando la Konrad-Adenauer-Stiftung si è occupata di loro avrebbero dovuto capire come si stavano mettendo le cose. Hanno detto in poche parole: “possono essere un disturbo ma se li ignoriamo non vanno da nessuna parte”. E durante la campagna elettorale la Merkel, anche contro il parere di alcuni suoi amici di partito, ha seguito alla lettera il consiglio. Solo negli ultimissimi giorni ha toccato l’argomento. I fatti le hanno dato ragione. E credo che qualche testa antieuropeista dentro la CDU rotolerà lontano dal trono.

Ma l’AfD – e particolarmente Lucke – sono stati visibilissimi sui media, specie in  televisione. Non ne hanno giovato.

No, evidentemente. I media hanno trovato divertente mettere al centro questi economisti radical-chic, facevano audience ma nessuno li ha presi veramente sul serio. Soprattutto hanno cercato di mettere al vertice della agenda il tema dell’uscita dall’Euro ma non hanno trovato nessun gancio. In più hanno giocato a fare gli splendidi isolati. Potevano cercare un accordo con i partiti storici della Sinistra. L’SPD (che faccio difficoltà a catalogare come Sinistra), Linke, i Verdi. Invece hanno saputo soltanto criticare tutti, autopromuoversi a geni in un mondo di imbecilli. Il risultato è che sono stati massacrati dal boomerangmediatico (che non sanno gestire) e isolati rispetto a tutto il contesto.

Ma d’altro canto la Sinistra, almeno quella anticapitalista tedesca, ha attaccato il’AfD e il tema dell’uscita dall’Euro, mi pare difficile trovare un accordo ….

Ma perché – premesso che gli atti violenti sono sempre da rigettare in toto – la Sinistra estrema tedesca è fatta da strani personaggi che però non sono affatto stupidi. Hanno fotografato perfettamente l’ambiguità di questi professorini, hanno identificato la loro forte consonanza con i partiti della destra estrema. L’episodio del giornale di estrema destra Junge Freiheit distribuito durante una riunione dell’AfD ha fatto il giro del Paese. Lucke ha cercato – troppo tardi di prendere le distanze dal sospetto di dimpatie per la destra estrema. Un altro peccato di presunzione.

Ma la Sinistra ha fatto bene in Germania ad eludere il tema della uscita dall’Euro?

deutschland_flaggen_espresso_tasseHa fatto benissimo. In primo luogo l’AfD chiedeva l’uscita dall’Euro ma non dala UE. Il che ha messo in chiaro che non c’era una idea alternativa di sistema. Che in realtà l’AfD – sotto l’apparenza popolare – è il solito partitino di mandarini legati a doppio filo con il sistema economico che ha provocato la crisi mondiale. Non è un caso che gli anti-euro in generale siano così rabbiosi con la Sinistra. La Sinistra vera (non l’SPD) ha gli anticopri necessari per decrittare perfettamente la vera natura di questa gente.

Venendo alla Sinistra tedesca. A fare i conti matematici SPD, Linke e Verdi se ho capito bene avrebbero la maggioranza. Si può pensare ad una alternativa alla Grosse Koalition?

Per niente. Il SPD non ci pensa nemmeno di spostarsi a Sinistra sul Linke. I Verdi e il Linke si detestano cordialmente. Certo è che la grosse koalition non porta fortuna al SPD che è già stato bastonato per il periodo di coabitazione con la Merkel. L’ipotesi di una allenaza tra verdi e CDU a me pare abbastanza lontana. Ma potrebbe essere una carta tattica che la Merkel potrebbe tentare di giocare per mettere sotto pressione l’SPD.

Quindi come finirà?

Finirà in un granitico governo CDU-SPD, io credo che a questa ipotesi non ci siano realistiche alternative. Ma una alleanza del genere dovrebbe porre sul tavolo un certo ammorbidimento della politica di austerità imposta ai paesi del Sud Europa. Ora la Merkel non ha più una scadenza elettorale davanti a sé e quindi può prendere in considerazione alcune possibilità per non spaccare l’intesa con i francesi. Su qualcosa la Merkel e la BuBa cederanno. Adesso la Merkel ha le carte in regola e il tempo sufficiente per giocarsi la partita senza paura delle urne. La novità non è che la Merkel abbia vinto. La novità è che la Merkel può essere meno Merkel e più “Angie”. Ossia può cedere qualcosa per non far entrare in una spirale sempre più avvitata l’UE. Capisco che da fuori la Merkel possa sembrare rigida. In realtà è una politica in grado di lavorare molto bene sui compromessi e parte da una posizione di forza con le migliori carte in mano. Hollande, Letta, per non parlare di spagnoli e greci non hanno il suo consenso. Ed hanno un disperato bisogno che la Merkel lanci loro un salvagente. La Merkel non è stupida. Magari il salvagente sarà piccolo ma lo getterà. Quel che basta a non far naufragare del tutto i governi “amici”.

Dovremmo essere contenti o scontenti in Italia per questo risultato?

Non saprei dirti. L’Italia a me sembra totalmente fuori gioco. Il governo Letta mi pare simile ad una palude immobile e immobilizzata. Non escludo che il successo della Merkel convica qualcuno a rinforzare l’idea di mantenere in sella Letta fino al semestre di presidenza italiano. Certo occorrerebbe una indubbia inversione di tendenza sul piano della ripresa economica. Credo che Letta speri nel “fattore tempo”. Ma non voglio pronunciarmi: la politica italiana è scarsamente prevedibile nel bene e nel male per chi non è italiano.

Strategia per una riconquista (di Serge Halimi)

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L’inevitabile domanda sul “che fare?” continuaa risuonare in tutti i discorsi. Oramai le proposte si sprecano. Alcune ragionevoli, altre poco comprensibili, altre ancora epidermicamente pericolose, Questo articolo di Serge Halimi comparso su Le Monde Diplomatique riassume bene alcuni spunti e alcuni problemi del “che fare”. Meriterebbe una approfondita discussione, soprattuto per le linee indicate come strategia. Ma non solo anche le evidenti difficoltà del pensiero critico mettono in evidenza la confusione e la mancanza di analisi serie. Queste pecche portano le persone a credere che opporsi al capitalismo sia “un tantinello complicato” e a farle optare per qualche strategia di corto respiro o a cercare soluzioni nell’economista di passaggio che lavora per riempirsi le tasche.

Sono trascorsi cinque anni dal fallimento di Lehman Brothers, il 15 settembre 2008. La legittimità del capitalismo come nodo di organizzazione della società ha subito un duro colpo; le sue promesse di prosperità, di mobilità sociale, di democrazia non illudono più. Ma il grande cambiamento non si è verificato. Le messe in discussione del sistema si sono succedute senza scuoterlo. Il prezzo dei suoi insuccessi è stato pagato persino con l’annullamento di una parte delle conquiste sociali che gli erano state strappate. «I fondamentalisti del mercato si sono sbagliati su quasi tutto, e tuttavia dominano la scena politica più che mai», constatava l’economista americano Paul Krugman già quasi tre anni fa. Tutto sommato, il sistema tiene, anche con il pilota automatico. Non è un complimento per i suoi avversari. Che cosa è successo? E che fare?
La sinistra anticapitalista rifiuta l’idea di una fatalità economica poiché crede che ci siano delle volontà politiche a organizzarla. Ne avrebbe dovuto dedurre che il tracollo finanziario del 2007-2008 non avrebbe aperto una via trionfale ai suoi progetti. Il precedente degli anni ’30 forniva già dei suggerimenti: in funzione delle situazioni nazionali, dei patti sociali e delle strategie politiche, una stessa crisi economica può sfociare in esiti tanto diversi quanto la salita al potere di Adolf Hitler in Germania, il New Deal negli Stati Uniti, il Fronte Popolare in Francia, e niente di altrettanto rilevante nel Regno Unito. Molti anni dopo, e ogni volta con qualche mese di intervallo, Ronald Reagan fece il suo ingresso alla Casa Bianca e Mitterrand all’Eliseo; Nicolas Sarkozy fu battuto in Francia e Barack Obama rieletto negli Stati Uniti. Vale a dire che la fortuna, il talento, la strategia politica, non sono variabili accessorie in grado di sostituire la sociologia di un paese o lo stato della sua economia.
La vittoria dei neoliberisti, a partire dal 2008, deve molto al soccorso della cavalleria dei paesi emergenti, poiché il «rovesciamento del mondo» è stato anche l’ingresso nella danza capitalista dei grossi contingenti produttori e consumatori cinesi, indiani, brasiliani. Questi sono serviti da esercito di riserva del sistema nel momento in cui sembrava essere in agonia. Solo negli ultimi dieci anni, la parte della produzione mondiale dei grandi paesi emergenti è passata dal 38% al 50%. La nuova fabbrica del mondo è diventata allo stesso tempo uno dei suoi principali mercati: dal 2009 la Germania esporta più in Cina che negli Stati Uniti.
L’esistenza delle «borghesie nazionali» – e l’attuazione di soluzioni nazionali — si scontra dunque con il fatto che le classi dirigenti del mondo intero hanno ormai interessi comuni. A meno di restare mentalmente ancorati all’anti-imperialismo degli anni ’60, come prevedere ancora, per esempio, che una risoluzione progressista dei problemi attuali possa avere per artefici le élite politiche cinesi, russe o indiane, affariste e venali quanto le loro omologhe occidentali?
Tuttavia il riflusso non è stato universale. «L’America latina, faceva notare tre anni fa il sociologo Immanuel Wallerstein, durante il primo decennio del XXI secolo, è stata la succes-story della sinistra mondiale. È così per due motivi: il primo e più citato: perché i partiti di sinistra o di centro sinistra hanno vinto una successione impressionante di elezioni. E poi: perché per la prima volta i governi latinoamericani hanno preso le distanze dagli Stati Uniti in maniera collettiva. L’America latina è diventa una forza geopolitica relativamente autonoma

Certamente l’integrazione regionale, che prefigura per i più audaci il «socialismo del XXI secolo», per gli altri individua uno dei più grandi mercati mondiali. Il gioco rimane nondimeno più aperto all’interno della vecchia sfera d’influenza degli Stati Uniti che all’interno dell’ectoplasma europeo. E se l’America latina ha conosciuto sei tentativi di colpi di Stato in meno di dieci anni (Venezuela, Haiti, Bolivia, Honduras, Ecuador e Paraguay), è forse perché i cambiamenti politici cui hanno dato impulso le forze di sinistra vi hanno realmente minacciato l’ordine sociale e trasformato le condizioni di esistenza delle popolazioni. Ciò ha altresì dimostrato che esiste certamente un’alternativa, che non tutto è impossibile, ma che per creare le condizioni del successo bisogna mettere in atto delle riforme strutturali, economiche e politiche le quali rimettano in moto gli strati popolari che l’assenza di prospettiva aveva imprigionato nell’apatia, nel misticismo o nella mera sopravvivenza. È forse anche in questo modo che si combatte l’estrema destra.
Trasformazioni  strutturali,  sì, ma quali?  I  neoliberisti  hanno  radicato così bene l’idea che non ci fossero «alternative» che ne hanno convinto anche i loro avversari, al punto che questi dimenticano anche le proprie proposte… Ricordiamone alcune tenendo a mente che oggi più esse sembrano  ambiziose,  più  è  importante adottarle senza aspettare. E senza mai dimenticare che la loro eventuale drasticità deve essere messa in relazione alla violenza dell’ordine sociale che esse vogliono distruggere.
Come   contenere   quest’ordine   e come sconfiggerlo in seguito? Lo sviluppo della parte del settore pubblico, e anche quella delle gratuità, risponderebbe a questo doppio obiettivo. L’economista André Orléan ricorda che durante il XVI secolo «la terra non era un bene che si poteva barattare, ma un bene collettivo e non negoziabile e questo spiega la vigorosa resistenza contro la legge sulla recinzione dei pascoli comunali». E aggiunge: «Stessa cosa oggi con la mercificazione della vita. Un braccio o del sangue ora non ci appaiono come merci, ma che ne sarà domani?».

Per contrastare quest’offensiva, forse converrebbe definire democraticamente alcuni bisogni elementari (alloggio, cibo, cultura, comunicazioni, trasporti), farli finanziare dalla collettività e metterli a disposizione di tutti. Addirittura, il sociologo Alain Accardo raccomanda di «estendere rapidamente e continuativamente il servizio pubblico fino a farsi carico gratuitamente di tutti i bisogni fondamentali a misura della loro evoluzione storica, cosa non concepibile economicamentte se non mediante la restituzione alla collettività di tutte le risorse e ricchezze prodotte dagli sforzi di tutti e necessarie all’assistenza sociale». Così, piuttosto che mettere la domanda in condizione di far fronte all’offerta aumentando i salari, si tratterebbe di acquisire quest’ultima al socialismo e di garantire a ciascuno delle nuove prestazioni in natura.
Ma come evitare di passare da una tirannia dei mercati a un assolutismo di Stato? Cominciamo, ci dice il sociologo Bernard Friot, a generalizzare il modello delle conquiste popolari che funzionano e che sono sotto i nostri occhi: il sistema previdenziale per esempio, contro il quale si accaniscono i governi di ogni colore. Un «fattore di emancipazione già esistente» che, grazie al principio della contribuzione, mette a disposizione della società una parte importante della ricchezza, permette di finanziare le pensioni, le indennità di malattia, i sussidi dei disoccupati. Diversa dall’imposta percepita e spesa dallo stato, la contribuzione non è oggetto di accumulazione e, agli inizi, fu gestita principalmente dai salariati stessi. Perché non spingersi oltre?

Volutamente d’attacco, un tale programma comporterebbe un triplo vantaggio. Politico innanzitutto: benché suscettibile di riunire una larghissima coalizione sociale, esso non è manipolabile da parte dei liberisti o dell’estrema destra. Ecologico: esso evita un rilancio keynesiano che, prolungando il modello esistente, finirebbe con «l’iniettare una somma di denaro nei conti in banca per essere poi riversata nel consumo di beni di mercato indotto dalla pubblicità (!)».
Inoltre privilegia bisogni che non saranno soddisfatti dalla produzione di oggetti inutili in quei paesi dove i salari sono bassi, con tanto di trasporto nei container da un capo all’altro della Terra. E per finire, un vantaggio democratico: la definizione delle priorità collettive (ciò che sarà gratuito, e ciò che non lo diventerà) non sarà più riservata a eletti, ad azionisti o a mandarini intellettuali, tutti provenienti dagli stessi ambienti sociali. Un approccio di questo tipo è urgente. Allo stato attuale dei rapporti di forza sociali del mondo intero, la robotizzazione accelerata dell’impiego industriale (ma anche dei servizi) rischia infatti di creare al contempo una nuova rendita per il capitale (riduzione del «costo del lavoro») e una disoccupazione di massa sempre meno indennizzata. Ogni giorno Amazon o i motori di ricerca dimostrano che centinaia di migliaia di clienti affidano ai robot la scelta delle uscite, dei viaggi, delle letture, della musica che ascoltano. Librerie, giornali, agenzie di viaggio ne pagano già il prezzo. «Le dieci più grandi imprese di Internet, come Google, Facebook o Amazon, fa notare Dominic Barton, direttore generale di McKinsey, hanno creato appena duecentomila posti di lavoro.» Ma hanno guadagnato «centinaia di miliardi di dollari di capitalizzazione in borsa»
Per rimediare al problema della disoccupazione, la classe dirigente rischia dunque di dover fronteggiare gli scenari temuti dal filosofo André Gorz; ovvero l’invasione continua dei campi ancora retti dalla gratuità e dalla donazione: «Dove si fermerà la trasformazione di tutte le attività in attività retribuite, aventi come ragione la loro remunerazione e la rendita massima come scopo? Quanto tempo potranno resistere le fragili barriere che impediscono ancora la professionalizzazione della maternità e della paternità, la procreazione commerciale degli embrioni, la vendita di bambini, il commercio di organi?».
La questione del debito convince quanto quella della gratuità se si svela il suo sfondo politico e sociale. Niente di più comune nella storia di uno Stato tenuto per la gola dai suoi creditori che, in un modo o in un altro, si libera dalla loro morsa per non infliggere più al suo popolo un’austerità perpetua. Fu il caso della Repubblica dei soviet che si rifiutò di onorare i prestiti russi sottoscritti dallo zar. O di Raymond Poincaré che salvò il franco… svalutandolo dell’80%, amputando in proporzione il carico finanziario della Francia, rimborsato in moneta svalutata. O ancora il caso degli Stati Uniti e del Regno Unito durante il dopoguerra che, senza una politica di rigore ma lasciando galoppare l’inflazione, quasi dimezzarono il fardello del loro debito pubblico.
Ma in seguito, come richiede il dominio del monetarismo, la bancarotta è diventata sacrilega, l’inflazione da perseguitare (ivi compreso quando il suo tasso sfiora lo zero), la svalutazione proibita. Ma benché i debitori siano stati liberati dal rischio di default, essi continuano a esigere un «premio di credito». «In una situazione di sovraindebitamento storico, mette in evidenza l’economista Frédéric   Lordon,   le  uniche  scelte possibili  sono   tra   l’aggiustamento strutturale al servizio dei creditori e una forma o l’altra della loro rovina». Dopo aver concesso loro tutto, l’annullamento di tutto o di una parte del debito arriverebbe a spogliare finanzieri e beneficiari di rendite, quale che sia la loro nazionalità.
Il laccio emostatico imposto alla collettività si allenterà tanto più velocemente quanto più essa recupererà le ricette fiscali dilapidate da trenta anni di neoliberismo. Non soltanto quando stata rimessa in discussione la progressività dell’imposta e si è fatto il callo alla generalizzazione della frode, ma anche quando è stato creato un sistema tentacolare nel quale la metà del commercio internazionale di beni e di servizi transita per paradisi fiscali. I loro beneficiari non si limitano a qualche oligarca russo o a un vecchio ministro delle finanze francese: sono soprattutto imprese vezzeggiate dallo Stato (e anche influenti sui media) come Total, Apple, Google, Citigroup o Bnp Paribas.
Ottimizzazione fiscale, «premi di trasferimento» (che permettono di localizzare i profitti delle filiali là dove le imposte sono basse), delocalizzazione delle sedi sociali: l’ammontare di denaro cosi sottratto alla collettività in completa legalità si avvicinerebbe a 1.000 miliardi di euro, solo per parlare dell’Unione Europea. Cioè, in numerosi paesi, una perdita in redditi imponibili superiore alla totalità del carico del loro debito nazionale. In Francia, come evidenziano diversi economisti, «anche recuperando soltanto la metà delle somme in gioco, la parità di bilancio potrebbe essere ristabilita senza sacrificare le pensioni, gli impieghi pubblici o gli investimenti ecologici per il futuro». Annunciato cento volte, annullato altrettante (e cento volte più lucrativo della perenne «evasione sui sussidi sociali»), il «recupero» in questione sarebbe tanto più popolare ed egualitario in quanto i contribuenti ordinari, da parte loro, non possono, ridurre il proprio reddito imponibile versando delle royalties fittizie alle filiali delle isole Cayman.
Alla lista delle priorità potremmo aggiungere il congelamento dei salari più elevati, la chiusura della Borsa, la nazionalizzazione delle banche, la rimessa in discussione del libero scambio, l’uscita dall’euro, il controllo dei capitali… Tutte idee già presentate su queste colonne. Perché allora favorire la gratuità, l’annullamento dei debito pubblico e il recupero fiscale? Semplicemente perché, per elaborare una strategia, per immaginare il suo fondamento sociale e le sue condizioni politiche di realizzazione, conviene scegliere un piccolo numero di priorità piuttosto che comporre un catalogo destinato a richiamare in strada una folla eteroclita di indignati che si dileguerà al primo temporale.
L’uscita dall’euro meriterebbe di figurare a colpo sicuro tra le urgenze. Tutti comprendono ormai che la moneta unica e la chincaglieria istituzionale e giuridica che la sostiene (Banca centrale indipendente, patto di stabilità) impediscono ogni politica che si accanisca contro l’aumento delle diseguaglianze e contro la confisca della sovranità di una classe dominante subordinata alle esigenze della finanza. Tuttavia, per quanto necessaria, la rimessa in questione della moneta unica non garantisce nessuna riconquista su questo doppio fronte, come dimostrano gli orientamenti economici e sociali del Regno unito o della Svizzera. L’uscita dall’euro, un po’ come il protezionismo, si fonderebbe peraltro su una coalizione politica che mischia il peggiore e il migliore, e all’interno della quale il primo termine prevale sul secondo, almeno per il momento. Il salario universale, l’amputazione del debito e il recupero fiscale permettono di attrarre altrettanto consenso, e anche di più, a patto di tenere in disparte convitati non desiderati

È   inutile   pretendere   che   questo «programma» disponga di una maggioranza in un qualunque parlamento del mondo.  Le trasgressioni che esso  prevede   comprendono   diverse regole  considerate   inviolabili.   Tuttavia, quando si è trattato di salvare il loro sistema in crisi, i liberisti, loro, non hanno mancato di audacia. Non hanno indietreggiato né davanti all’aumento   sensibile   dell’indebitamento   (eppure   avevano   assicurato che avrebbe fatto gonfiare i tassi di interesse). Né davanti a un forte rilancio del bilancio statale (eppure avrebbe scatenato l’inflazione). Né davanti   all’aumento   delle   imposte, alla nazionalizzazione delle banche in fallimento, o a un prelievo forzato dai depositi bancari, o al ripristino del controllo dei capitali (Cipro). Insomma, «quando i raccolti sono sotto la grandine, è folle chi fa il delicato». E ciò che vale per loro vale anche per noi, che soffriamo troppo di modestia… Tuttavia non è fantasticando un ritorno al passato né sperando solo di ridurre l’ampiezza delle catastrofi che si ridarà fiducia, che si combatterà la rassegnazione di non avere in definitiva altra scelta possibile che l’alternanza di una sinistra e di una destra che applicano più o meno lo stesso programma.
Serge Halimi_small

Sì, serve audacia. Parlando dell’ambiente, nel 1974 Gorz sosteneva che «un attacco politico, lanciato a tutti i livelli, strappa [al capitalismo] la gestione delle operazioni e gli oppone un progetto di società e di civiltà tutto diverso». Poiché, secondo lui, quello che importava era evitare che una riforma sul fronte ambientale si pagasse subito con un deterioramento della situazione sociale: «La lotta ecologica può creare difficoltà al capitalismo e obbligarlo a cambiare; ma quando, dopo aver resistito a lungo con la forza e con l’astuzia, finalmente cederà perché l’impasse ecologica sarà divenuta ineluttabile, farà propri questi obblighi come ha fatto propri gli altri. (…) Il potere di acquisto del popolo sarà contenuto, e tutto accadrà come se il costo del disinquinamento fosse prelevato dalle risorse di cui dispongono le persone per l’acquisto di beni di consumo». Da allora, la resilienza del sistema è stata dimostrata quando il disinquinamento è diventato i sua volta un mercato; per esempio a Shenzhen, dove alcune imprese poco inquinanti vendono ad altre il diritto di accedere la loro quota regolamentare mentre l’aria viziata uccide già più di in milione di cinesi l’anno.
Se non mancano le idee per rimettere il mondo al verso giusto, come impedire che entrino nel museo delle virtuose misure incompiute? Negli ultimi tempi, l’ordine sociale ha suscitato numerose contestazioni, dalle rivolte arabe ai movimenti degli «indignati». Dal 2003, con le folle immense riunite contro la guerra in Iraq, decine di milioni di manifestanti hanno invaso le strade, dalla Spagna a Israele, passando per gli Stati uniti, la Turchia o il Brasile. Hanno attirato l’attenzione, ma non hanno ottenuto grandi cose. Il loro fallimento strategico aiuta a segnalare il cammino da seguire.
La caratteristica delle grandi coalizioni contestatarie sta nel cercar di consolidare il loro numero evitando le questioni che dividono. Tutti intuiscono quali temi farebbero andare in frantumi un’alleanza che a volte ha per fondamento solo degli obiettivi generosi ma imprecisi: una migliore ripartizione dei redditi, una democrazia meno mutilata, il rifiuto delle discriminazioni e dell’autoritarismo. Via via che la base sociale delle politiche neoliberiste si restringe, che le classi medie pagano a loro volta il prezzo della precarietà, del libero scambio, del rincaro degli studi, diventa d’altronde più facile sperare di formare una coalizione maggioritaria.
Formarla sì, ma per fare cosa? Le rivendicazioni troppo generiche o troppo numerose fanno fatica a trovare una traduzione politica e a iscriversi nella lunga durata. «Per una riunione di tutti i responsabili dei movimenti sociali», ci spiegava recentemente Arthur Enrique, già presidente della Centrale unitaria dei lavoratori (Cut), il principale sindacato brasiliano, «ho messo insieme i diversi testi. Il programma delle federazioni sindacali prevedeva 230 punti; quello dei contadini, 77; etc. Li ho sommati tutti; faceva più di 900 priorità. E ho chiesto: “Che cosa ci facciamo, concretamente, con tutto ciò?”» In Egitto la risposta è stata data… dai militari. Una maggioranza del popolo si è opposta per tutta una serie di eccellenti motivi al presidente Mohamed Morsi, ma per mancanza di altri obiettivi rispetto a quello di assicurarne la caduta, essa ha abbandonato il potere all’esercito; con il rischio di divenirne oggi l’ostaggio, e domani la vittima. Non avere dei programmi di viaggio porta spesso a dipendere da quelli che ne hanno uno. La spontaneità e l’improvvisazione possono favorire un momento rivoluzionario ma non garantiscono una rivoluzione. I social network hanno incoraggiato   l’organizzazione   delle manifestazioni; l’assenza di un’organizzazione formale ha permesso di sfuggire – almeno per un po’ di tempo – alla sorveglianza della polizia. Ma il potere si conquista ancora con strutture piramidali, soldi, militanti, macchine elettorali e una strategia: quale blocco sociale, quale alleanza, per quale progetto? In questi casi possiamo applicare la metafora di Accardo: «La presenza su un tavolo di tutti gli ingranaggi di un orologio da polso non permette a qualcuno che non ha le istruzioni per il montaggio di farlo funzionare. Un piano per l’assemblaggio è una strategia. In politica, si può far nascere una serie di crisi in successione oppure si può riflettere sull’assemblaggio delle parti». Definire alcune grandi priorità, ricostruire la lotta intorno a esse, smetterla   di   complicare   tutto   tanto   per mettere alla prova le proprie virtuosità: questo significa giocare la parte dell’orologiaio, poiché una «rivoluzione alla Wikipedia dove ognuno aggiunge il proprio contenuto» non riuscirà ad aggiustare l’orologio. Negli ultimi anni alcune azioni localizzate, disorganizzate e febbrili hanno partorito una contestazione innamorata di se stessa, una galassia di impotenti e di impazienti, una successione di scoraggiamenti. Nella misura in cui le classi medie solitamente costituiscono la colonna vertebrale di questi movimenti, una tale incostanza non può sorprendere: esse si alleano con le categorie popolari solo in un contesto di pericolo estremo – e a condizione di assumere molto rapidamente la direzione delle operazioni. Tuttavia, si pone anche e sempre di più la questione del rapporto con il potere. Dato che nessuno immagina ancora che i principali partiti e le attuali istituzioni modifichino per poco che sia l’ordine neoliberista, cresce la tentazione di privilegiare il cambiamento delle mentalità su quello delle strutture e delle leggi, di trascurare il terreno nazionale, di reinvestire sul piano locale o comunitario con la speranza di crearvi alcuni laboratori per le vittorie future. «Un gruppo scommette sui movimenti, sulle diversità senza un’organizzazione centrale, riassume Wallerstein, un altro avanza che se non si ha il potere politico, non si può cambiare nulla. Tutti i governi dell’America Latina vivono questo dibattito».

Ciononostante si può misurare la difficoltà   della   prima   scommessa. Da un lato, una classe dirigente solidale, consapevole dei propri interessi, mobilitata e padrona del terreno e della forza pubblica; dall’altro, innumerevoli associazioni, sindacati e partiti, tanto più tentati di difendere il proprio orticello, la propria singolarità, la propria autonomia quanto più temono di essere riassorbiti dal potere politico. Forse essi si ritrovano anche a essere inebriati dall’illusione di Internet che fa loro immaginare di contare perché dispongono di un sito sul web. La loro «organizzazione reticolare» diviene allora la maschera teorica di un’assenza di organizzazione e di riflessione strategica, avendo la rete come sola realtà la diffusione circolare  i  comunicati  digitali  che ciascuno condivide in rete e che nessuno legge.

Il legame tra movimenti sociali e ricambio istituzionale, tra contropoteri e partiti, è sempre stato problematico. Dato che non esiste più un obiettivo principale, una «linea generale» – e meno che mai una linea o un cartello a incarnarla – bisogna «chiedersi come creare il globale a partire dal particolare». La definizione di alcune priorità capaci di mettere direttamente in causa il potere del capitale permetterebbe di rafforzare i buoni sentimenti, di attaccare il sistema centrale e di individuare le forze politiche disposte.
Sarà importante esigere subito da queste forze politiche che gli elettori possano, attraverso un referendum, revocare i loro eletti prima della fine del mandato, la Costituzione venezuelana prevede una disposizione di questo tipo dal 1999. Infatti, numerosi capi di governo hanno preso decisioni importanti (età del pensionamento, impegni militari, trattati costituzionali) senza averne precedentemente ricevuto mandato dal loro popolo. Quest’ultimo otterrebbe così il diritto di prendersi la rivincita in maniera diversa dal rimandare al potere i fratelli gemelli di chi ha appena tradito la sua fiducia.
Basterà poi attendere l’ora? «A inizio 2011, non eravamo più di sei persone ad aderire al Congresso per la Repubblica [Cpr], ricorda il presidente tunisino Moncef Marzouki. Ciò non ha impedito al Cpr di ottenere il secondo posto alle prime elezioni democratiche organizzate in Tunisia alcuni mesi più tardi…». Nel contesto attuale, il rischio di un’attesa troppo passiva, troppo poetica  significherebbe vedere altri da sé – meno pazienti, meno esitanti e più temibili – cogliere il momento per sfruttare a loro vantaggio una collera disperata alla ricerca di bersagli, non necessariamente i migliori. E siccome il lavoro di demolizione sociale non s’interrompe mai senza che lo si aiuti, dei punti di riferimento o dei focolai di resistenza da cui partirebbe una riconquista eventuale (attività non mercificate, servizi pubblici, diritti democratici) rischierebbero di essere annientati. E ciò renderebbe ancora più difficile una nuova vittoria.
La partita non è persa. L’utopia liberista ha distrutto la sua parte di sogno, di assoluto, di ideale, senza la quale i progetti sociali appassiscono e poi muoiono. Produce solo più privilegi, esistenze fredde e morte. Dunque un rovesciamento ci sarà. Ciascuno di noi può farlo arrivare un po’ più presto.
SERGE HALIMI

Raddrizzare la nave

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La Costa Concordia è stata raddrizzata. Come il principe Calaf che cantava “all’alba vincerò”, la nave si è finalmente rimessa in asse. La fiancata che poggiava sul fondale è penosamente danneggiata, la salsedine ha dato un colore marroncino uniforme ad un lato. Ancora c’è molto da fare per riportare la nave sulla linea di galleggiamento ma, in uno scoppio di gioia, sono state le stesse sirene  del relitto ad annunciare la riuscita dell’operazione. Il capitano De Falco (quello rimasto famoso per il “vada a bordo, cazzo!”, oggi in una intervista su La Repubblica afferma che l’operazione di recupero è “una dimostrazione di capacità tecnica e organizzativa che riscatta l’immagine di una Italia approssimativa e cialtrona”.  Ed il nocciolo della questione sta qui, nell’uso pubblico che mass-media e politica stanno facendo del recupero. E giusto per non cambiare giornale a pagina 26 Michele Serra si lascia sfuggire questa frase. “E si faceva il tifo, si sperava che i lillipuziani ce la facessero, risollevandoci (in parte) dall’ontoso inchino di Schettino”.
Perché mai il recupero del relitto (dopo 610 giorni) dovrebbe “riscattare” qualcuno?  Perché si sta mettendo in moto un “discorso pubblico simbolico” molto simile – riguardo agli effetti sperati – ad una partita vincente della nazionale di calcio. La nave, trasposizione simbolica del Paese, viene raddrizzata da piccoli uomini laboriosi e onesti, in grado di riparare il danno compiuto dal “cialtrone”. E nasce così l’epica del riscatto e il presidente Letta afferma «tutti coloro che stanno lavorando lì sono un grande orgoglio italiano». Ovviamente abbiamo bisogno di una dimensione simbolica ma occorre fare attenzione perché questo simbolismo è anche pericoloso. La nave raddrizzata non è una nave che accende i motori e riparte, sta lì ed è un relitto. Ed il recupero non può far dimenticare i morti, la scellerata conduzione, la pochezza di chi era al comando, le scelte sbagliate e le responsabilità. Perché dimenticarsi di queste cose è il viatico migliore perché i naufragi continuino. E mentre il simbolismo diventa sempre più palpabile (potete scommettere che l’analogia Concordia-Italia ci ammorberà per un po’ di tempo) la tecnica della “smemoratezza orgogliosa” si afferma. I segni ci sono già: non è la corruzione pervasiva, non è la conduzione politica disastrosa, non è una classe imprenditoriale cialtrona ad aver affondato questo Paese. Ma la colpa di uno, uno che ci ha ridotti così a noi poveri virtuosi. E, se e quando, la nave dovesse ripartire conterà poco analizzare le responsabilità, perché dalle responsabilità ci stanno salvando certi economisti appena sfornati dalla melma della crisi. Gente che ti vuol dimostrare che la crisi è il solo frutto della (disastrosa) scelta dell’Euro, che nessuno in questo Paese ne è colpevole. Tutto un fatto spiegabile  (e risolvibile) in termini monetari. Non ha colpa chi – dopo 24 ore dall’introduzione dell’Euro – ti ha convertito la tazzina di caffè a Roma dalle 1.000 all’Euro, non ha colpa chi ha usato questi ultimi dieci anni per distruggere il welfare state, abbassare selvaggiamente il costo del lavoro, precarizzare, e distruggere la base vitale delle classi più deboli. E certi signori che hanno fatto tutto questo saranno di nuovo al timone della nave, perché – in assenza di assunzione di responsabilità – la colpa sarà tutta della Merkel e dei rapaci tedeschi. La colpa è solo nell’aver ignorato il signor Mundell, la colpa è non aver capito che bisognava continuare a lavorare sulle svalutazioni competitive. Quindi non c’è e non ci sarà alcun bisogno di fare pulizia: basterà raddrizzare la nave.
morning_2673885kBeninteso: l’Euro (ma lo abbiamo detto sino allo sfinimento) è stato realizzato in modo demenziale e liberarsene è quasi un dovere. Ma se l’Euro dovesse svolgere il ruolo del cadavere di Mussolini a Piazzale Loreto allora sì che sarebbero guai per tutti. Perché il giorno dopo verrebbero assolti tutti coloro che dietro a quella moneta – come dietro a quel cadavere – erano stati solerti operatori. E già si vede come le cose potrebbero andare. Uno degli “economisti” di punta dell’euroexit sta già modificando la rotta. Dopo aver – per un biennio abbondante – insultato l’universo mondo, cresciuto una squadra di supporter rabbiosi quanto lui, oggi raccomanda i suoi adepti di abbassare i toni. L’operazione di aggressione (di colleghi anche con visioni simili, di giornalisti e financo di ignari passanti) è finita. Adesso si indossa il doppiopetto e ci si allinea ad una sobrietà che crescerà in modo direttamente proporzionale all’esposizione mediatica. Ora l’operazione è creare la corrente moderata degli euroexit. Una corrente che – come ampiamente previsto – si guarderà bene dal dirci che l’intero sistema capitalistico ci ha ridotti in questo modo. Si adotterà un modus operandi più soft, meno aggressivo man mano che la plausibilità dell’uscita dall’Euro entrerà nel discorso pubblico. Ci si guarderà bene dal parlare di problemi strutturali perché non si può contestare alla radice un sistema con il quale ci si può mettere d’accordo. L’era del raddrizzamento è vicina. Basta coglierne i segnali. Da Casaleggio che va a Cernobbio, agli “egonomisti” che diventano improvvisamente ed untuosamente moderati nel loro approccio. Ancora una volta “cambiare tutto per non cambiare nulla” o, meglio, per mantenere ancora una volta gli stessi identici rapporti di forza tra le classi. Ciò che terrorizza non è uscire dall’Euro, quel che terrorizza è che ne usciremo con gli stessi nani e le stesse ballerine che ci hanno fatto entrare. Cambieranno le persone ma la mentalità e l’opportunismo rimarrà inalterato. E saranno sempre gli stessi a pagare il conto, quelli che non stanno su Twitter, quelli per i quali non cambierà nulla economicamente. Ma la nave, sporca e piena di fango, sarà raddrizzata. Non sarà in grado di ripartire ma ci sentiremo tutti “orgogliosi”.

L’Euro e gli economisti-profeti

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Un feroce – quanto silenzioso – dibattito attraversa da molti anni il concetto di scienza. Il punto è la distinzione tra ciò che deve legittimamente definirsi scienza e ciò che non ha questo diritto. Nel mondo anglosassone si è affermata la distinzione tra “hard science” e “soft science”. Non è una distinzione che trova tutti d’accordo ma si è andata oramai affermando, quasi fosse un armistizio. Questo dibattito nasce dal fatto che alcune discipline negli anni hanno tentato di accreditarsi come “scienze”. Una “scienza dura” è comunemente quella che si basa su dati sperimentali. Dati che sono quantificabili e ripetibili da altri soggetti secondo il metodo scientifico. Ciò produce accuratezza, verificabilità e oggettività. Ovviamente una “scienza dura” così definita è altamente “desiderabile”. Ossia: una scienza che fornisce risultati oggettivi raccoglie più finanziamenti. In un mondo della ricerca basato sul denaro pubblico e privato essere dei cultori di una “hard science” ha indubbi vantaggi.
In questo quadro l’economia – sarebbe meglio dire gli economisti – ha da lungo tempo iniziato la sua scalata all’ambita etichetta di “hard science”. Il primo successo si ebbe nel 1969 con l’istituzione del “Premio della Banca di Svezia per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel”. Successo perché Nobel non l’aveva né pensato né istituito. Appare ovvio che attribuire un premio del genere (che sfrutta cinicamente il nome di Nobel) significa proiettare l’economia nel pantheon delle “hard science”. Ciononostante soltanto un negatore della realtà o un imbecille potrebbe sostenere con successo che l’economia abbia la capacità di produrre accuratezza, verificabilità e oggettività. L’economia odierna si è travestita con larga abbondanza di matematica e si è dedicata alla produzione di modelli. Lo scopo principale è quello di simulare (e dare ad intendere) che l’economia abbia una capacità predittiva. Che sia cioè una disciplina in grado di predire esattamente il futuro in determinate condizioni. Non credo sia necessario sostenere che ciò non è. Nessun economista ha previsto con precisione l’avverarsi di una crisi, nessun economista ha elaborato una ricetta infallibile per uscirne. Ed è questo il punto. Oggi l’economia ci fornisce modelli che dicono tutto e il contrario di tutto dimostrandosi completamente lontana dalla “hard science” che vorrebbe dimostrare di essere. Si potrebbe anche aggiungere che questi modelli poi vanno a pescare contributi in altre discipline. Vi faccio l’esempio di Daniel Kahneman, premio “Nobel” per l’economia nel 2002. Il premio gli fu attribuito con questa motivazione: “per avere integrato risultati della ricerca psicologica nella scienza economica, specialmente in merito al giudizio umano e alla teoria delle decisioni in condizioni d’incertezza”. Perché Kahneman è uno psicologo e non un economista. Ma una delle frontiere dell’economia è quella di capire come noi ci comportiamo quando dobbiamo fare delle scelte economicamente rilevanti. Nel 1979, quando apparve sulla rivista Econometrica il contributo di Kahneman sulle decisioni in condizioni di incertezza, si aprì una nuova prateria da esplorare. Non che fosse qualcosa di totalmente inesplorato, l’antropologa Mary Douglas aveva elaborato una teoria culturale del rischio cui Kahneman alla fin fine è largamente debitore. Dunque l’economia – che è molto interessata a dimostrare di essere predittiva – attinge ampiamente ad altre discipline come la psicologia e l’antropologia. So perfettamente che è stato detto di recente da un econometrista nostrano  “che mestiere fanno i sociologi, ci servono i sociologi?”, Kahneman e Douglas danno la risposta ad una domanda che voleva essere retorica e che in realtà è soltanto una affermazione idiota.
Per accreditarsi come “hard science” l’economia non solo pesca tra le altre discipline ma si avvita su sé stessa. Credo abbiate notato anche voi che, all’interno delle discussioni (o forse farei meglio a definirle risse) tra economisti vada di moda rifarsi al sistema del sillogismo retorico della “petitio principis”, ossia a quel sillogismo che vorrebbe dimostrare la verità di una asserzione grazie al fatto che una indiscussa autorità l’ha affermata. Perciò vi ritrovate delle perle del tipo: questa tesi “non è mia ma di alcune decine di Nobel”. Ora vi inviterei a scorrere l’elenco dei premi “Nobel” (che non sono Nobel, come già detto) per l’economia e domandarvi se le teorie di Milton Friedman (premiato nel 1976) abbiano qualcosa da spartire con la visione di Paul Krugman (premio 2008) o se Amartya Sen (premio 1998) abbia una qualche parentela di pensiero con von Hayek (premio 1974). Giusto per citare casi eclatanti e nomi noti. Strana scienza dunque dove, volendo, si possono prendere come numi tutelari esponenti che dicono cose che altri numi tutelari negano.
Se l’economia non è la “hard science” che vorrebbe essere rimane il terribile problema della diffusa autorevolezza dell’economia presso i media tradizionali )televisione, radio, stampa) e i “new media” (web). Ossia: perché i giornalisti e i loro omologhi su altri strumenti di comunicazione sbavano inseguendo l’economista Pinco Pallo che ci dice che è meglio stare nell’Euro e l’economista Pinco Pallino che ci dice che dobbiamo uscirne? Per la stessa, identica, ragione per la quale sbavano correndo dietro allo storico che critica il valore della Resistenza e quello che la afferma, o al dietologo che sostiene i benefici effetti della patata americana sul metabolismo e quello che li nega. Il giornalista fa il suo mestiere e vuole che ci siano sempre due campane a suonare. Ma, proprio perché in economia è agevole trovare sempre due campane, l’economia non è né una “hard science” né un sistema predittivo efficace.
Ma allora perché stiamo correndo dietro gli economisti con molta più lena di quanto non corriamo dietro agli astrologi? Mi direte: “perché c’è una crisi e abbiamo bisogno di esperti che ci illuminino su questa crisi”. Una risposta ragionevole ma, purtroppo, basata su un apparente buon senso. Il fatto che io sia in crisi non giustifica ad esempio, che mi rivolga al Divino Otelma per avere lumi sul mio futuro.
A mio avviso la rincorsa all’economista-mago si inserisce in un fenomeno collettivo più ampio. Alla fine degli anni Cinquanta Norman Rufus Cohn pubblicò un libro importante nel quale enunciava una tesi di grande valore. Cohn constatava che le crisi economiche, sociali e politiche del mondo occidentale hanno quasi sempre innescato uno status mentale apocalittico e finalistico. Secondo Cohn i grandi traumi violenti e le grandi crisi economiche generano una maggioranza di “esclusi” respinti ai margini dell’onda di cambiamento. Questi “esclusi” (o che si percepiscono tali) sviluppano un atteggiamento di rifiuto (pienamente giustificato) delle istituzioni sociali e culturali che li hanno condotti sino alla crisi di cui non vedono uno sbocco. Le energie liberate dagli “esclusi” sono state studiate da un altro sociologo: James Rhodes, che ha elaborato una griglia di passaggi che stanno ad indicare l’affermarsi di una “coscienza millenarista”. In primo luogo le persone si sentono (a ragione) vittime di una catastrofe che travolge ogni punto di riferimento precedente. In questa condizione si crea un brodo di cultura dal quale possono emergere degli autentici “solutori” o dei “profeti”. I “solutori” riescono ad incanalare il disagio diffuso all’interno di pratiche reattive razionali ma, disgraziatamente, si tratta di figure che – quasi sempre – non hanno un carisma necessario per imporsi in un clima di panico. In altri termini il “solutore” non grida, non si esagita, non si pone come “salvatore”. Nel panico hanno più presa i “profeti”. Questi si accreditano perché vivono o sostengono di vivere una improvvisa rivelazione che spiega loro il motivo delle sofferenze collettive e promette la salvezza dalle sventure presenti. I “profeti” non sono “uomini nuovi”, anzi, erano perfettamente inseriti nel sistema andato in crisi e non si erano distinti in precedenza per averlo criticato. Qui sta la loro forza: come il resto della massa che vogliono guidare dichiarano (esplicitamente o implicitamente) di essere stati anch’essi ciechi prima della rivelazione. Il “profeta” nelle sue visioni mistiche (che laicamente possono diventare “prese di coscienza”) scopre che la causa delle difficoltà sono causate dal principio del Male (che a seconda delle circostanze varia nella sua incarnazione pratica: ebrei, comunisti, infedeli, euristi, tedeschi, etc.). Questo principio del Male agisce attraverso agenti segreti che lavorano per nascondere la verità e trascinare nell’abisso la maggioranza. I “profeti” scoprono di essere stati scelti per combattere e sconfiggere le forze maligne salvando sé stessi e il popolo. Percepiscono che si è arrivati vicini al giorno della resa dei conti. Giorno in cui il Male vibrerà il colpo finale al quale sopravviveranno solo coloro che hanno creduto alla “rivelazione”. Dopo questa lotta finale coloro che hanno creduto costruiranno l’ordine paradisiaco che verrà. Si salveranno solo coloro che – forgiati nella “tempesta d’acciaio” dello scontro finale – sapranno cogliere le opportunità del futuro indicato dal “profeta”.
Immagino che tutto ciò possa sembrare esagerato. Ma se ci riflettiamo in termini laici è esattamente ciò che sta accadendo. Abbiamo una serie di figure “profetiche”, incarnate da economisti che, usando la disciplina come “rivelazione”, stanno prefigurando scenari millenaristici. E, ovviamente, trovano consensi.
Il sorgere degli economisti-profeti non significa che non ci sia una crisi. La crisi c’è ed è drammatica. Quel che è però preoccupante è che la crisi non viene affrontata secondo un percorso razionale ma secondo un percorso fideistico. Ci sono coloro che credono e coloro che non credono alla soluzione del “profeta” e, ovviamente, coloro che non credono sono gli agenti del Male. Perciò i toni della “predicazione” diventano invariabilmente manichei e di assoluta contrapposizione. E se anche c’è qualcuno che concorda sulla analisi della crisi ma non si schiera in modo incondizionato con le idee del “profeta”, questo qualcuno diventa un “utile idiota” (nella migliore delle ipotesi) del Male.
Un’ultima caratteristica dell’affermarsi dei “profeti” è che il sistema crollato non viene messo in discussione in quanto tale. Il mondo è entrato nella fase di crisi non perché il sistema sul quale si basava era sbagliato ma perché il Male lo ha irreparabilmente danneggiato.
Così nessun economista-profeta dichiarerà che è il capitalismo che non funziona e che è alla radice della crisi. Piuttosto sono state delle perversioni particolari (capitalismo finanziario, introduzione dell’Euro) che ne hanno indebolito una intrinseca virtù che va recuperata.
Naturalmente il percorso di salvezza è irto di ostacoli: epidemie (leggi inflazione e disoccupazione), violenze degli agenti segreti (sempre detentori del potere oppressivo) e quant’altro. Ma tutte queste prove – ci dice il “profeta” saranno superate pur con grande sofferenza.
Queste tristi e penose figure di “profeti” hanno la capacità di coprire con il loro rumore di fondo le voci molto più flebili dei “solutori”. I quali, si badi bene, non sono meno “rivoluzionari”, anzi sono gli unici ad esserlo veramente nella misura in cui non si limitano a prefigurare la crisi di un sistema “buono” ma indicano il fallimento dell’intero paradigma.
Mentre il “profeta” individua un Male assoluto in un aspetto periferico e marginale della crisi, il “solutore” mette in rilievo la centralità del problema. Il che, tradotto in altri termini, significa che sul banco degli imputati sta il sistema che produce le crisi, non gli epifenomeni delle crisi come nel caso dei “profeti”.
E per parlare chiaro la questione “euro sì, euro no” è oggi un’arma di distrazione di massa usata da tutti coloro che hanno interesse a che nulla cambi realmente nel paradigma generale. Incanalare la discussione su questo epifenomeno fa comodo ai fautori dell’Euro. Infatti la loro soluzione alla crisi (frutto del non completamento del processo di unificazione europea) è più euro, ossia più capitalismo liberista. Fa comodo con gli anti-Euro perché li esonera dall’esercitare una critica al capitalismo in quanto tale offrendo la soluzione magica del ritorno ad un “capitalismo umano”.
Né gli uni né gli altri hanno la benché minima intenzione di smontare il meccanismo che crea le crisi. Gli uni lo vogliono rilanciare, gli altri lo vogliono, al massimo, rendere tollerabile.
Uscire da questo doppio inganno non è semplice e non è neppure immediato. Chi parla di rivoluzione imminente scambia – probabili – moti di piazza con la presa della Bastiglia. Il processo per uscire dalla trappola è molto più lungo e passa attraverso un paziente lavoro di recupero della coscienza collettiva. Nessuna rivoluzione è dietro l’angolo. Come ha scritto recentemente Luciano Canfora “la rivoluzione francese  aveva alle spalle un vasto retroterra di erosione critica e quindi è riuscita a cambiare l’orientamento spirituale della maggioranza del popolo”. Senza un lungo processo di “erosione critica” dei paradigmi di consumo, delle abitudini e dei comportamenti, senza un incessante lavoro che metta nel discorso pubblico i veri temi della crisi, temi per forza globali, nessuno si può illudere che ci sia cambiamento. L’illusione di poter cavalcare la crisi del disagio “pilotando” le persone è fallimentare. Nel breve termine non accadrà nulla. Non ci saranno né stati d’eccezione, né rivolte sociali in grado di trasformarsi in rivoluzioni di cambiamento effettivo. Ci sono e ci saranno bande di economisti-profeti e di economisti di regime, apparentemente in armi l’uno contro l’altro, in realtà perfettamente allineati nella volontà di rimettere in moto la stessa macchina che produce le crisi.

INDICAZIONI DI LETTURA

Norman Cohn, The Pursuit of the Millennium: Revolutionary Millenarians and Mystical Anarchists of the Middle Ages Fairlawn: Essential Books, 1957. Trad. italiana I fanatici dell’Apocalisse, Ed. Comunità 2000.
James Rhodes, The Hitler movememnt. A modern millenarian revolution, Stanford, Hoover Institute Press, 1980
Luciano Canfora, Intervista sul potere, Laterza, Bari, 2013

Morire cantando

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I temi del nazionalismo e dell’identità nazionale vengono puntualmente riesumati quando si aprono crisi profonde (economiche e sociali) all’interno delle nazioni. La retorica patriottica sembra avere la capacità (illusoria) di poter rappresentare un collante nell’era della fine delle ideologie e per opporsi alle pretese di superare il concetto di nazione in una super-nazione europea. La riflessione sul nazionalismo – però – non può ridursi alla enunciazione di slogan. Occorrerebbe in primo luogo riflettere attentamente sui guasti e sulla sostanziale aggressività che il nazionalismo ha saputo provocare. Per questo motivo credo interessante proporvi un articolo scritto da George L. Mosse nel 1990 e che fu pubblicato in quell’anno sulla rivista Prometeo. Mi pare ci siano molti spunti di riflessione importanti. Ars Longa

“Era tempo che facessimo passare una legge per ripristinare onorificenze e decorazioni”, pare che abbia detto un alto funzionario della Repubblica federale tedesca nel 1955, “altrimenti nelle occasioni ufficiali si fa fatica a distinguere gli ospiti d’onore dal capocameriere”. E se in gran parte del mondo al giorno d’oggi onorificenze e decorazioni non vengono considerate indispensabili per la sovranità nazionale, ogni nazione deve possedere una bandiera e un inno nazionale. Mentre tutti gli stati di nuova indipendenza adottarono rapidamente i loro inni dopo la Seconda Guerra Mondiale, l repubblica federale tedesca si trovò priva di inno nazionale. A prima vista, il Deutschlandlied (l’inno tedesco) aveva un passato senza macchia; dopotutto era stato adottato come inno nazionale dalla Repubblica di Weimar. Era però rimasto in uso durante il Terzo Reich. C’era bisogno anche di una nuova bandiera, visto che il Terzo Reich aveva utilizzato la bandiera nera bianca e rossa della Germania imperiale. Ma c’era a disposizione la bandiera nera rossa e oro della Repubblica di Weimar, anche se nel dibattito al Bundestag del 1949 sull’adozione della bandiera qualche deputato espresse una certa nostalgia per la vecchia bandiera sotto la quale i tedeschi si erano battuti ed erano morti nelle due guerre mondiali. La discussione, tuttavia, si concluse quasi subito, e la nuova bandiera entrò a far parte della legislazione del paese, perché, secondo l’espressione di uno dei deputati, i simboli nazionali erano tutto quello che rimaneva a una Germania devastata, Ci vollero altri tre anni per giungere a una decisione in merito all’inno nazionale. I primi versi del Deutschlandlied, quelli che avevano suscitato più risentimento. e cioè “Deutschland, Deutschland, über alles in der Welt!” vennero soppressi , e fu mantenuto soltanto il terzo verso, che invoca “Einihkeit, und Recht und Freiheit” (unità, e diritto e libertà). Il tentativo di fare del tutto a meno di un inno nazionale aveva causato continui imbarazzi:  e in effetti la decisione di abolire tutti gli inni nazionali alle Gare Europee di atletica leggera del 1954, sostituendoli con fanfare di trombe, non venne più ripresa. Di un inno c’era bisogno, e nel 1949 il primo Bundestag aveva aperto la sessione intonando la cantata di Mozart “Brüder, reicht mir die Hande zum Bunde” (Fratelli, datemi la mano a suggellare il patto). Deutschlandlied_4_StropheTuttavia, la tradizione non poteva essere ignorata. La nazione moderna, che si è sempre presentata come radicata nella storia, non può acquisire nuovi simboli all’improvviso. Non era stato così, tuttavia, al passaggio dal XVIII al XIX secolo. Gli inni nazionali ebbero origine, insieme a una nuova coscienza nazionale, all’epoca della Rivoluzione francese. Anche se alcuni brani, come “God save the King”, risalgono all’inizio del XVIII secolo, fu solo a quell’epoca che essi divennero inni nazionali. In gran parte vennero forgiati dalle guerre combattute dalla Rivoluzione e da quelle napoleoniche, o vennero letti alla luce di questi conflitti che rappresentarono una chiara rottura con il passato. La nazione moderna alla sua nascita è una nazione in armi. Gli eserciti di cittadini, costituiti da volontari e coscritti in Francia, Prussia, e nella stessa Inghilterra, mobilitarono per la prima volta ingenti masse di uomini. Questi eserciti diedero loro la sensazione di partecipare al destino della nazione, e, insieme, una disciplina. L’inno nazionale è parte integrante di una intera rete di simboli con cui la nazione volle presentarsi al proprio popolo per impegnarne in modo compatto la fedeltà. La bandiera, l’inno, e la maggior parte delle feste nazionali, hanno sempre conservato qualcosa della nazione in armi, anche in tempo di pace. Studiare gli inni nazionali significa dunque esaminare come la guerra venne incorporata entro gran parte dei nazionalismi, i quali, a loro volta, furono uno dei ponti attraverso cui l’accettazione della guerra divenne un fattore dato quasi per scontato nella vita moderna. Gli inni nazionali che nacquero in questo periodo riflettono molti dei temi della nuova coscienza nazionale, derivati in larga misura dalle guerre rivoluzionarie e napoleoniche; la conquista francese e la difesa inglese, il trauma dell’occupazione della Prussia e il suo entusiasmo quando infine entrò nella lotta. Qualche riferimento alla guerra e alla morte in battaglia è presente nella maggior parte degli inni nazionali, anche se, come vedremo, vi sono delle eccezioni. Spicca anche il tema della fratellanza o del cameratismo: gran parte dei volontari, ma anche molti coscritti, avevano fatto in queste guerre l’esperienza di una comunità di tipo nuovo, tenuta insieme dal pericolo comune e da un comune obiettivo. La nazione come speranza nel futuro è implicita in tutti questi temi, ma mai espressa in termini espliciti salvo che nel Deutschlandlied, che dipinge un mondo sano e felice fatto di vino, donne e canzoni.
Furono guerre combattute da giovani, e le nazioni si inorgoglivano di una giovanile virilità. Solo di rado si trovano dei riferimenti alla giovinezza nei testi degli inni nazionali, contrariamente alla poesia nazionalistica più popolare. Ma la giovinezza è presente indirettamente o per associazione nell’occasionale menzione della virilità, nonché nel ritmo della musica. Vedremo come il Deutschlandlied, futuro inno nazionale che non menziona la gioventù neppure implicitamente, finì per essere strettamente associato alla morte dei giovani in battaglia.
La virilità giovanile fa parte dell’immagine guerriera della nazione assediata dai nemici. Quest’immagine viene evocata in termini quasi estatici dai poeti delle guerre di liberazione tedesche, dai quali sentiamo spesso parole come Männerstreit, Männerschlacht, Männerehre (lotta virile, battaglia virile, onore virile). Certamente, lo stesso ideale è implicito nei riferimenti ai “valorosi e arditi” figli della Svezia, o in “Lituania terra d’eroi”, per non citare che due inni nazionali. I temi della giovinezza e del cameratismo non trovano posto negli inni che hanno al centro un sovrano: né “God save the King” né “Heil dir im Siegerkranz Retter des Vaterlands” (il vecchio inno austriaco) esprimono sentimenti del genere. Sarebbero stati del tutto fuori tema già prima che “God save the King” divenisse “God save the Queen” con l’ascesa al trono della Regina Vittoria. A volte tuttavia anche gli inni reali contengono il tema dominante degli inni nazionali ed evocano la nazione in guerra, pur senza richiedere il sacrificio personale.
Le guerre che videro il sorgere della moderna coscienza nazionale sottolinearono inoltre la differenza tra la morte privata e il sacrificio per la nazione. I soldati mercenari avevano dato per scontata la loro morte, facendo del proprio meglio per evitare di essere uccisi o feriti. Ma la Marsigliese dice orgogliosamente che i suoi giovani eroi caduti in battaglia risorgeranno sul sacro suolo della Francia. Il soldato entra così a far parte di un’infinita catena di vite che supera la morte, fino alla sua resurrezione. In molte delle canzoni della Rivoluzione francese la morte per la patria viene descritta in analogia con gli ideali cristiani come un martirio in armi. La poesia scritta da Theodor Koerner durante le guerre di liberazione tedesche, dove la felicità potrà essere ottenuta solo grazie alla morte sacrificale, è un buon compendio di ciò che la nazione riteneva di dover chiedere ai suoi cittadini. Vengono in mente molti esempi di inni nazionali che esprimono una richiesta del genere: i Belgi nella Brabançonne 1830) offrono alla patria il braccio, il cuore, BRABANçONNEil sangue; gli Italiani nell’Inno di Mameli (1847) son pronti alla morte; i Messicani tanto per cambiare continente – combatteranno fino all’ultimo respiro (1850); gli Svedesi sono decisi a vivere e morire per il loro paese (1844), mentre gli Svizzeri hanno due inni nazionali: l’uno, adottato nel 1843, è pastorale e pacifico, mentre l’altro, che risale al 1811,  dichiara che solo chi muore per la patria è libero. Tornerò in seguito sugli inni di carattere più pacifico e pastorale. Grosso modo, sono limitati alle nazioni minori, mentre gli stati più potenti uniscono l’esaltazione della morte in battaglia a un atteggiamento difensivo o offensivo nei confronti di presunti nemici. La Marsigliese, che ebbe origine in guerra, chiede nel ritornello che l’impuro sangue del nemico scorra lungo il cammino degli implacabili eroi della rivoluzione. Il Deutschlandlied non ha nulla della voluttà di battaglia di Theodor Koerner, ma, come è tipico di molti inni nazionali, prende un atteggiamento difensivo che può tuttavia tradursi in una sfida.
Manca nel Deutschlandlied il legame tra nazione e morte che dà un’impronta guerresca a gran parte degli inni. Ma in questo caso, a dimostrarsi più importante della realtà fu il mito, con le sue due primo strofe: “Deutschland, Deutschland über alles, über alles in der Welt”. Persino questi versi in origine erano rivolti contro i sovrani tedeschi che si opponevano all’unificazione, e non contro qualche potenza straniera, nemmeno la Francia. E tuttavia l’ostinata insistenza su tutto ciò che è tedesco, la sua incondizionata esaltazione, rese relativamente facile interpretare il brano in senso aggressivo. Ernst Moritz Arndt, nella fase iniziale delle guerre di liberazione tedesche, aveva ancora definito la libertà della Germania libertà per tutto il genere umano, e, come espressione concreta di questo sentimento, la bandiera polacca accompagnò quella tedesca al castello di Hambach nel 1832 alla celebrazione della prima festa nazionale tedesca. Ma già Theodor Koerner e Max von Schenkendorf, i più popolari poeti delle guerre di liberazione, che lasciarono altresì la propria impronta su tutto il futuro nazionalismo, restrinsero la propria idea di libertà alla sola Germania. Gli inni nazionali, nel complesso, riflettono una visione più limitata di questo tipo, anche se la Marsigliese, da principio – e malgrado l’esplicito riferimento ai Francesi – poteva ritenersi applicabile a tutti i popoli. Il Deutschlandlied è esempio di una visione nazionale più angusta e ciò rese più semplice per i nazionalisti tedeschi, a dispetto del testo vero e proprio, di collegare il primo verso alla morte sacrificale in battaglia.
Già nell’Impero guglielmino il Deutschlandlied era stato reinterpretato dai conservatori in un’ottica più aggressiva, e letto alla luce dell’onnipresente poesia delle guerre di liberazione. Ma di importanza decisiva nell’associare il futuro inno nazionale con la morte in battaglia fu il famoso Bollettino dell’Esercito Tedesco dell’11 novembre 1914: esso affermava che ad ovest della cittadina di Lange-marck reggimenti di giovani avevano preso d’assalto con successo la prima linea delle trincee inglesi cantando “Deutschland, Deutschland über alles”. Questa battaglia rappresentò il battesimo del fuoco per un reggimento che avrebbe dovuto essere costituito da migliaia di studenti e da molti ex membri del Movimento Giovanile Tedesco (ma in realtà la maggior parte della truppa era assai più anziana), dando vita nell’euforia dei primissimi mesi della guerra a questa immagine della gioventù che prima si arruola volontariamente e poi si sacrifica con gioia. La battaglia di Langemarck divenne un simbolo del trionfo dell’eroica gioventù, e sarebbe del tutto corretto parlare di un vero e proprio culto di Langemarck nella Germania reduce dalla sconfitta nella prima guerra mondiale. Joseph Magnus Wehner, un romanziere di tendenze conservatrici, sintetizzò nel 1932 il mito di Langemarck che fece del Deutschlandlied una parte integrante della rigenerazione della Germania per mezzo della guerra, e lo fece in un discorso pronunciato su richiesta della più grande organizzazione studentesca tedesca e letto in pubblico in tutte le università del paese. “Prima che il Reich si coprisse il volto nella vergogna e nella sconfitta”, egli disse, “quelli di Langemarck cantarono. Andarono a morire cantando! cantarono correndo, giovani studenti che correvano verso la propria distruzione di fronte alle soverchianti forze e ai fucili crepitanti dei nemici”. Morirono, egli disse, con il Deutschlandlied sulle labbra, “… e nella canzone che li accompagnò nella morte, essi sono risorti…” Di certo, si tratta di immagini di grande effetto, che strumentalizzarono una canzone che il Presidente Ebert aveva ritenuto tanto pacifica da poterla adottare come inno nazionale della Repubblica di Weimar mutamenti nel modo in cui gli inni nazionali sono stati percepiti nel loro passaggio attraverso la storia non devono essere dimenticati leggendone il testo. Non solo il Deutschlandlied, ma la stessa Marsigliese subì un cambiamento del genere. Quando la Marsigliese tornò ad essere di nuovo, nel 1879, l’inno nazionale francese, la_marseillaise03la si interpretò come un canto di riconciliazione nazionale in attesa di una futura vittoria sulla Germania. Certo né i Borboni né Napoleone III avevano visto la Marsigliese in quest’ottica, e l’avevano bandita in quanto inno rivoluzionario. La sconfitta e il suo uso nella Comune parigina avevano causato questo cambiamento. Ma in conseguenza dell’adozione ufficiale della Marsigliese i militanti operai sentirono di non poterla più usare e chiesero a un operaio socialista, Pierre Degeyter, di scrivere una nuova canzone sulla base di un motivo composto da Eugène Pottier, membro della Prima Internazionale. L’Internazionale nacque in reazione all’uso ufficiale della Marsigliese, e fece la sua prima prova nel 1896 quando gli operai si scontrarono con i nazionalisti a Lilla – ma questa volta furono i nazionalisti a cantare la Marsigliese, e gli operai l’Internazionale.
La Marsigliese come il Deutschlandlied finì per essere strumentalizzato dalla destra politica. Per quanto ciò possa essere stato in contrasto con gli impulsi e le intenzioni originarie, quello del militante nazionale rimane il tema principale degli inni nazionali, malgrado i mutamenti intervenuti nella loro ricezione col passare del tempo. La prevalente preoccupazione per la guerra e la difesa, nella grande maggioranza degli inni nazionali, rimase identica, insieme con l’angolo di visuale circoscritto e la nuova concezione della morte, a prescindere dal carattere festoso o marziale della musica.
Il fascismo italiano e il nazionalsocialismo portarono al culmine le implicazioni inerenti alla natura degli inni nazionali. Essi istituirono quello che si può chiamare un vero e proprio culto degli inni che era parte del culto della nazione. L’Italia fascista lo fece in maniera formale, i nazionalsocialisti in modo più informale. Forse fu la tradizione operistica italiana a incoraggiare ciascuna organizzazione fascista ad avere il suo inno, anche se subordinati a Giovinezza, il principale inno fascista. Pietro Mascagni, più noto per la sua Cavalleria Rusticana, scrisse gli inni per i lavoratori e per i corpi elitari della gioventù fascista; così come Giuseppe Blanc, il compositore di Giovinezza aveva scritto delle operette; anzi, la melodia di Giovinezza era già stata usata nella sua “Festa dei fiori”. All’inizio del secolo, giovinezzaGiovinezza era stata una popolare canzone studentesca creata da Blanc e dal giovane poeta Nino Oxilia che venne ucciso nella prima guerra mondiale. Come tale, era un omaggio alla giovinezza e alla bellezza, uno sguardo retrospettivo rivolto a una vita di studio e di amori  che aveva ceduto il passo alla durezza della vita – una banale canzone studentesca simile a quelle che esistevano allora in quasi tutti i paesi. Da allegra canzonetta studentesca Giovinezza divenne l’inno ufficiale del partito fascista – suonato accanto all’inno tradizionale in occasione – attraverso gli Alpini, le truppe da montagna italiane, che la portarono con sé nella guerra di Libia prima che divenisse la canzone ufficiale degli “Arditi”, le truppe d’assalto italiane nella prima guerra mondiale. Queste truppe di prima linea aggiunsero al testo di Giovinezza un nuovo verso in cui si asserisce che la gioventù non teme la morte, la preferisce al disonore, ed è pronta a morire con il sorriso sulle labbra affrontando il nemico. Questo verso aggiunto dagli “Arditi” rese la canzone adatta a diventare l’inno fascista: gioventù, bellezza e morte erano infatti i temi basilari della mitologia fascista. Così anche l’Inno dei balilla manda i giovani fascisti incontro alla morte cantando. Allo stesso modo, si diceva che i cittadini-soldati della Rivoluzione avessero combattuto al canto della Marsigliese, e il fior fiore della gioventù tedesca, come abbiamo visto, morì con il Deutschlandlied sulle labbra. All’interno della mitologia del nazionalismo, questo tipo di inni nazionali non solo esaltava la morte in guerra nel testo, ma veniva messo alla prova in battaglia.
L’Horst Wessell Lied, usato come inno nazionale ufficioso durante il Terzo Reich, alla pari con d Deutschlandlied, non necessitava di alcuna trasformazione. I temi rilevanti erano presenti in esso fin dall’inizio: i caduti in guerra che marciano nei ranghi dei vivi, l’ideale del cameratismo, la distruzione del nemico – e anche se il motivo della giovinezza non viene espresso in questo caso nel testo, è ugualmente implicito nel ritmo.
Questi inni fascisti e nazionalsocialisti fanno uso delle stesse forme musicali della maggior parte degli inni nazionali che abbiamo discusso. Quando Alfred Rosenberg disse al Festival Nazionale dei Cori (Sängertag) del 1935 che la musica nazionalsocialista non doveva essere sentimentale – espressione di una mascolinità debole e incompleta, secondo la sua formula – ma facile, semplice ed eroica, non faceva che ripetere gli ideali adottati dalla musica della maggior parte degli anni nazionali. Senza dubbio, l’inno italiano, e molti inni latino-americani di ispirazione italiana, mostrano delle influenze operistiche, ma gli altri sono delle marce su ritmi di chiesa. Qualunque sia la forma musicale scelta, tutti gli inni nazionali sono legati a un ritmo chiaro ed espressivo come fattore unificante della musica. La natura di tale ritmo dipende principalmente da due elementi: se si riteneva che l’inno dovesse essere cantato soprattutto marciando o da fermi; e in entrambi i casi la gente doveva essere in condizioni di unirsi al canto. La Marsigliese fu il primo inno a usare un ritmo di marcia, in opposizione ad inni precedenti come “God save the King”, che prendevano a modello gli inni cristiani. L’età del nazionalismo è anche l’età della politica di massa, e questo fatto portò all’introduzione del ritmo in tutte le cerimonie – marce, parate, festival – allo scopo di trasformare una massa disordinata in una folla disciplinata. All’inizio del XIX secolo, mentre si tenevano i festival rivoluzionari, e la Marsigliese aveva intrapreso la propria marcia trionfale attraverso tutta Europa, il poeta tedesco Goethe scrisse che il ritmo ha in sé qualcosa di magico che ci spinge a credere di essere parte del sublime. Quasi profeticamente Goethe collegò il ritmo con il bisogno, avvertito da molti uomini e donne nell’epoca della Rivoluzione francese e della rivoluzione industriale, di sentirsi sotto i piedi un terreno sicuro, di assimilare alle proprie vite un pezzetto di eternità. Unirsi alla “liturgia nazionale”, cantare gli inni nazionali, aveva proprio questo significato: sublimarsi nella più vasta comunità della nazione. Dopo la nascita della Marsigliese la maggior parte degli inni nazionali venne eseguita al tempo allegretto con fuoco, che fossero favorevoli o contrari alla Rivoluzione francese: in tal modo, ad esempio, veniva suonato il Preussen Lied (Canto Prussiano). Gli inni nazionali fin qui discussi vennero scritti e composti durante o poco dopo la Rivoluzione francese. Si tratta essenzialmente di inni di autorappresentazione nazionale, anche se, a volte, menzionano un sovrano. Ma alcuni inni molto autorevoli ebbero origine prima della Rivoluzione, anche se soltanto nell’età rivoluzionaria vennero adottati come inni nazionali. Si dovevano cantare fermi in piedi piuttosto che in movimento, e recano l’impronta degli inni ecclesiastici. “God save the King” fu il più insigne di questi inni, e superò in popolarità la Marsigliese come modello per altri inni nazionali: Austria, Svezia e Svizzera sono solo alcune fra le nazioni che ne adottarono lo stile e la musica. E contrariamente alla Marsigliese esso non venne cantato per la prima volta andando in battaglia ma nel 1715, nel Drury Lane Theatre, in onore del re Giorgio II.
E tuttavia anche “God save the King” divenne popolare attraverso la guerra: fu quando il re si distinse contro i francesi e quando nel 1746 respinse l’invasione del pretendente Stuart. Mentre il primo verso dell’inno ha un tono di preghiera, il secondo chiede a Dio di disperdere i nemici del Re, “… e farli cadere; confondere la loro politica – i loro loschi stratagemmi”. La musica che accompagna le parole, e che divenne tanto popolare in tutta Europa come inno rivolto al sovrano, si anima ogni qual volta il re è chiamato a sconfiggere i suoi nemici o quando viene descritta la sua sovranità.
Inoltre, in questo genere di inni, in opposizione a quelli che glorificano la nazione piuttosto che il sovrano, c’è spesso uno iato tra le parole aggressive e la musica solenne. Il re Cristiano di 1914-1916Danimarca, ad esempio, nell’inno nazionale danese (circa 1780), vibra la spada con tanta efficacia che essa trapassa “l’elmo gotico e il cervello” e lo fa seguendo il ritmo maestoso, appena modificato, di “God save the King”. E tuttavia in Inghilterra “God save the King” non risultò soddisfacente in funzione del crescente spirito militante durante la crisi delle guerre napoleoniche. “Rule Britannia, Rule the Waves” era stato pubblicato da James Thomson nel 1729 allo scopo di rinfocolare i sentimenti dell’opinione pubblica contro la presunta “politica-di-pace-ad-ogni-costo” del governo verso la Spagna: divenne così un secondo inno nazionale, militante e trionfalistico. Allo stesso tempo, la figura di John Bull venne usata come simbolo del popolo britannico nella sua lotta contro la Francia. La fame di simboli che incarnassero lo spirito dell’intera nazione, invece di far rappresentare la nazione a un singolo sovrano, trovò spazio anche nelle nazioni il cui sovrano dimostrò di possedere una stabilità. Ma, come abbiamo visto, tale simbologia fu di norma – anche se non sempre – combinata con uno spinto guerresco.
Non c’è stato dunque alcun inno nazionale che rappresentasse una nazione completamente in pace? Gli inni delle potenze minori furono in grado di concentrarsi su un’analogia tra la nazione e la natura, invece di focalizzarsi su guerre offensive o difensive. Il “Salmo Svizzero”, ad esempio, è un inno di questo tipo, in contrasto con il secondo inno svizzero che ho già menzionato, mentre l’inno nazionale del Liechtenstein dipinge questo paese come una contrada di tranquilla felicità. Il “Salmo Svizzero” invita gli Svizzeri a pregare quando l’alba si leva sulle Alpi, e anche altri inni di carattere pastorale, come quelli di Cecoslovacchia, Finlandia e Norvegia, si concentrano sulla realtà del paesaggio natio. Alla medesima tradizione si volsero alcune nazioni dopo la seconda guerra mondiale allo scopo di purificare il proprio passato. Il nuovo inno nazionale austriaco, cantato su una musica derivata da una delle “Cantate Massoniche” di Mozart, si apre con “Terra di montagne, Terra di ruscelli, Terra di campi”. Theodor Heuss, il primo presidente della Repubblica Federale, propose (invano) un nuovo inno nazionale in cui la Germania appariva una terra di fede, speranza e amore, unita nella pace. Questi inni, dunque, non hanno nulla di guerresco, e non menzionano neppure la necessità di difendere la patria contro gli aggressori.
Altre canzoni, che appaiono orientate verso il futuro e contengono un importante elemento utopico fanno un ulteriore passo in avanti: lodano la pace contro la guerra. Tuttavia, non si tratta propriamente di inni nazionali, ma di canzoni del movimento dei lavoratori. E però esse assolvono una funzione identica a quella degli inni nazionali, con l’intento di dare ai lavoratori il senso di un’identità collettiva. Certamente, il testo di molte di queste canzoni, compresa l’Internazionale, ha uno slancio simile a quello degli inni nazionali. Esse sono fondamentalmente dirette contro un nemico: i ricchi, gli sfruttatori, gli oppressori. E in più molte di queste canzoni vennero cantate su melodie patriottiche. Eppure, malgrado la reale e potenziale aggressività di molte canzoni operaie, il loro tono è fondamentalmente differente da quello della maggior parte degli inni nazionali. Ad esempio, la più popolare canzone operaia tedesca, la “Marsigliese dei lavoratori” (1864) -“inno nazionale del movimento operaio nella Germania imperiale – dapprima incita a impegnare gli innumerevoli nemici in una lotta piena di rischi, ma poi continua dicendo che non invita all’odio contro i ricchi, ma vuole uguali diritti per tutti. L’Internazionale che chiama i lavoratori a conquistare i propri diritti con la forza, termina poi dicendo che quando ciò avverrà il sole brillerà per sempre. Questi appelli a un mondo migliore e pacifico, sono assenti nella gran parte degli inni nazionali. La nazione guarda all’indietro, non in avanti; è la storia e non una visione utopica a darle l’immutabilità di cui ha bisogno per frenare il passo accelerato del tempo. Quando ad esempio nel Deutschlandlied le donne tedesche, la fedeltà tedesca e le canzoni tedesche sono evocate come ideali futuri, vengono immediatamente collegate alla storia: devono infatti recuperare la propria antica nobiltà. Il tema della rigenerazione è presente tanto nelle canzoni operaie che negli inni nazionali, ma nei primi l’analogia è in generale con la primavera, con un risveglio in un mondo migliore; negli altri essa si realizza attraverso il paesaggio immutabile o gli atti di eroismo in guerra. Dopo la seconda guerra mondiale, per quanto ne so, solo l’inno della Repubblica democratica tedesca riprese la forma e i temi di queste canzoni operaie.
communeE tuttavia nessuno degli inni nazionali di nuova adozione nell’Europa postbellica, compresi quelli dell’Unione Sovietica, continuò dopo la seconda guerra mondiale a collegare nel modo ormai tradizionale la coscienza nazionale alla guerra. Certamente questo mutamento ha ben poco a che fare con le concrete scelte politiche, ispirate ad atteggiamenti guerreschi che avrebbero potuto rendere l’auto-rappresentazione tradizionale della nazione ancor più appropriata dopo il 1945 di quanto non lo fosse prima. Al contrario, ciò sembra dovuto al mutato atteggiamento verso la morte in guerra: la paura della morte aveva sostituito ogni pensiero di gloria e di resurrezione, in una visione apocalittica evocata da una guerra che non aveva fatto alcuna distinzione tra civili e soldati, nonché dall’uso della bomba atomica. Ad esempio, le nazioni dell’Europa occidentale e centrale non riportarono in patria in pompa magna alcun milite ignoto a far compagnia all’eroe della precedente guerra. La funzione dei simboli nazionali non era più quella di incitare gli uomini ad andare alla guerra e a sacrificare la vita, ma invece quella di mitigare la paura della morte e proiettare nel futuro l’idea di un mondo sano, felice e in pace. La guerra cessò di essere glorificata come parte dell’autorappresentazione della nazione, e venne mascherata e travestita, tenendola il più possibile distante dalla vita degli individui. Con tutto ciò, gli inni nazionali più importanti e diffusi non hanno mai negato la propria origine dalla nazione in armi e, come abbiamo visto, anche un inno nazionale scaturito da una tradizione differente come “God save the King” contiene passaggi guerreschi. Resta da stabilire fino a che punto questa autorappresentazione della nazione, che è stata tanto coerente per un lungo periodo di tempo, abbia influenzato l’atteggiamento generale verso la morte e la guerra. Certo è che per più di un secolo intere generazioni hanno dato per scontato che la nazione richiedesse il sacrificio della sua gioventù, accompagnandolo con canti e poesie.

George L. Mosse

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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J. TIERSOT, Histoire de la Marseillaise, Paris 1955.

La politica? Per farla bisogna uscire dall’ambiguità

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L’abbiamo pescato mentre si prepara ad andare a Mantova al Festivaletteratura che si terrà in quella città dal 4 all’8 settembre. Un lavoro nel campo dell’editoria alternativa, un passato politico, un presente da spettatore non silente. Chiamialo Ars Longa – Lettere o come volete voi. Gli abbiamo posto  delle domande che sono emerse qui tra articoli e commenti.

Ti ho fatto vedere quello che si scrive sul blog, i commenti e i ragionamenti e vorrei porti la questione che sembra emergere e che – ovviamente – è legata al “che fare?”. Il tema è che ci sia un Paese addormentato che ha bisogno di essere “risvegliato”. Alcuni commenti propongono la necessità che le persone già “sveglie”, le più coscienti, il ceto intellettuale, si adoperino per far uscire dal torpore il resto della popolazione. Tu cosa ne pensi?

Prima di tutto un complimento per i contenuti, non sono un grande frequentatore della blogosfera però mi pare che stiate facendo un buon lavoro, ci vedo una qualità di contenuti una spanna sopra la media dell’usuale. Poi, per rispondere alla tua domanda senza girarci intorno, io credo che la teoria del popolo “addormentato” sia una tradizione italiana più che una realtà. Non è un caso che l’inno nazionale incominci con le parole “l’Italia s’è desta”. L’idea che il popolo italiano viva un sonno dal quale può essere risvegliato è consolatoria per sua natura. Presuppone che ci siano le energie per cambiare  una situazione. Presuppone che un potere ostile abbia addormentato un intero Paese. Nell’Ottocento erano i governanti degli Stati pre-unitari asserviti agli Austriaci, all’inizio del Novecento le grandi potenze mondiali che volevano negarci il “posto al sole”, per noi che eravamo la “grande proletaria” bisognosa di colonie. Dopo la parentesi dittatoriale che ha retoricizzato la nazione, l’addormentamento è stato attribuito ad un limaccioso potere politico democristiano. Tramontato anche questo si è visto nella televisione berlusconiana il sonnifero delle coscienze. La classe “intellettuale” di questo Paese ha bisogno di questa interpretazione, che è una visione molto strumentale.
In primo luogo preserva il ruolo di una certa classe (intesa in senso ampio e non marxiano) che si pone come “risvegliatrice” e in secondo luogo ribadisce la favola autoesplicante del popolo buono governato male. In sintesi: non credo che il popolo stia dormendo ma che sia un topos comodo per molti.

Se non è addormentato però sembra non reagire. Credi che la maggioranza pensi di essere governata bene?

Assolutamente no, gli ultimi centocinquanta anni non sono un esempio di buon governo sotto nessun aspetto. Però il teorema del “buon popolo addormentato” che sta in attesa di un principe azzurro che gli indichi la via per il riscatto è, appunto, una favoletta. Fabbricata da un certo “milieu” culturale. Ed è una favola che ha, da sempre, degli effetti catastrofici. Cerco di andare con ordine.In ogni cultura nazionale esiste una qualche forma di contrapposizione tra alto e basso, ovunque c’è del risentimento dei governati verso i governanti. Questo risentimento in Italia (ma anche altrove) genera però non una propensione alla rivolta ma un adattamento fatalistico alla situazione ed il ricorso alla astuzia come strumento di reazione. In Italia, più che altrove, è diffusa nella cultura informale la convinzione che ci sia un “palazzo” che ordisce trame e complotti contro la povera gente. Il “palazzo” è abitato da una classe dirigente che ha conseguito la sua posizione grazie ad una operazione politica non trasparente. E proprio in virtù di questo ottenimento fraudolento del potere lo esercita in modo da anteporre l’interesse proprio all’interesse generale. Come ci si può difendere? Assumendo un ruolo passivo e giocando d’astuzia. Faccio finta di sottomettermi e ricerco degli spazi di autonomia negli interstizi del sistema. Mi faccio furbo e la furbizia diventa l’arma di chi pensa di non potersi misurare con il potere in campo aperto. C’è gente, soprattutto a Sinistra, che – sotto sotto – si è sempre stupita dell’assenza di capacità rivoluzionarie del popolo italiano. Perché non c’è una Bastiglia, un Palazzo d’Inverno italiano? E la spiegazione è invariabilmente quella del popolo addormentato che nessuno ha mai svegliato. In realtà – a mio avviso – non solo è sveglissimo ma è forse uno dei più rivoluzionari al mondo. Gli Italiani sono in una rivoluzione permanente a bassa intensità dall’unità d’Italia in poi e, forse, anche da prima. Rivoluzione che usa l’arma della sfiducia sistematica e della furbizia.

Non ti pare di condannare così il popolo e di ricadere in un giudizio altezzoso?

Affatto. Perché c’è l’altra parte del quadro da vedere. Alla visione dal basso corrisponde specularmente una visione dall’alto. La classe dirigente italiana ha degli stupefacenti tratti da “ancien regime” che difficilmente si riscontrano altrove. Chi governa ha un atteggiamento aristocratico di sostanziale disprezzo del popolo. Un disprezzo che va al di là del tempo e delle ideologie. Provava disprezzo verso il popolo il notabilato giolittiano e crispino ed anche quello fascista (nonostante gli strilli di segno opposto). L’idea che governare gli italiani sia difficilissimo è comune a tutti i regimi che si sono succeduti. Andreotti scrisse una volta che Mussolini avrebbe detto che “governare gli italiani non è difficile, è inutile”. Non so se Andreotti abbia coniato un suo pensiero per metterlo in bocca al fondatore del fascismo, ma sostanzialmente da tante altre fonti si può dedurre che questo era effettivamente il pensiero mussoliniano. Le classi dirigenti italiane si basano sulla dicotomia tra il noi (i colti) e loro (i bifolchi), chi governa sente di farlo per ragioni ontologiche non in virtù di un processo democratico. Ed il fatto che l’esercizio del potere sia vissuto come un “destino” fa sì che la classe dirigente non abbia mai sentito il bisogno di legittimare la propria esistenza con il proprio lavoro. Se governo perché Dio o il destino o il Partito mi hanno posto a governare è assolutamente inutile legittimare il mio governare attraverso la creazione di benessere collettivo. E se manca il bisogno di legittimazione subentra l’arroganza del potere. Ed il cerchio si chiude.

In che senso?

Nel senso che c’è una profezia autoavverante che si compie. Il popolo considera sempre fraudolento l’esercizio del potere della classe dirigente, la classe dirigente considera sempre chi governa una massa di bifolchi di cui è meglio fidarsi il meno possibile.
Questo rapporto lo vedi ben fotografato dai presupposti concettuali del sistema fiscale. Il fisco parte dal principio che il contribuente cerchi di “tirare a fregare”. Il contribuente parte dal principio che il modo migliore per reagire alla tassazione sia quella di eluderla il più possibile. Il meccanismo genera quelle cose incredibili secondo le quali l’Agenzia delle Entrate presume che tu debba guadagnare una certa cifra attraverso quella follia concettuale che è lo studio di settore. Il contribuente sotto i parametri dello studio di settore può mettersi in regola pagando una cifra che sarebbe inferiore a quello che lo studio indica ma che è superiore rispetto a quello che dichiara. Il meccanismo è: io so che tu bifolco stai tirando a fregare perché ontologicamente tiri a fregare. Questo ragionamento si rispecchia nel ragionamento dell’altra parte: io so che tu Stato sei predatorio ed ingiusto perciò gioco d’astuzia. La conclusione è un trovarsi a mezza via trattando un accordo. E questa sfiducia reciproca tra alto e basso si risolve sempre in una dialettica di trattativa che trova non un punto di verità ma un punto di comodità tra due posizioni.
Questa dinamica genera due alibi comodissimi sia per il basso che per l’alto. Il popolo ha nell’uso fraudolento del potere da parte delle classi dirigenti, l’alibi per mettere in atto comportamenti tecnicamente e/o moralmente discutibili nel suo rapporto con lo Stato. La classe dirigente ha l’alibi per giustificare il proprio potere senza la necessità di legittimarlo. Ma dirò di più, la classe dirigente può in questo ecosistema distorto rifiutare di sentirsi élite che guida. Se ci fai caso la classe dirigente italiana nega sistematicamente il proprio ruolo di responsabilità. Se vai da un sindaco ti dice che lui, il potere non lo ha, che sta altrove. La stessa cosa te la dice il presidente della regione, il parlamentare, il membro del governo. La classe dirigente italiana si dichiara sempre sfornita di potere e, in questo modo, lo può esercitare senza sentirsi responsabile e senza decidere di assumere le guida. L’innamoramento dell’Europa, fortissimo per molto tempo in Italia, è stato comune al popolo e alla classe dirigente. La ragione è semplice: la classe dirigente trovava negli organismi europei un soggetto sui quali scaricare il ruolo guida, il popolo sperava finalmente che qualcuno questo ruolo guida se lo assumesse. Quando le cose andavano bene si coltivava l’idea che i nostri nodi sarebbero stati sciolti dalle decisioni europee. Alcune decisioni forti ci sarebbero state, finalmente, imposte dall’esterno. E un meccanismo del genere aveva un consenso larghissimo. Le classi dirigenti che hanno sistematicamente rifiutato un ruolo guida e le responsabilità ad esso connesse si sono sentite sollevate ancora di più dal loro dovere. I governati hanno sperato che l’intervento esterno avrebbe costretto la classe dirigente a fare ciò che non aveva mai fatto perché fraudolenta in sé.

Ma adesso le cose vanno male ….

Sì ma la produzione seriale degli alibi non è finita, anzi. Da un lato la classe dirigente sta giocando la partita con la parola magica “ce lo chiede l’Europa” e continuando a nuotare beatamente nel mare della deresponsabilizzazione. Dall’altro lato sempre più cresce l’ostilità popolare verso l’Europa accusata di essere la ragione della crisi economica. Che – a fare i conti bene – è un ulteriore alibi per dimenticarsi e dimettersi dalle proprie responsabilità. Questo poi si intreccia con temi popolari dormienti ma sempre vivi: i tedeschi sanguinari e cattivi, il potere cieco e oppressivo qualunque sia.  L’antieuropeismo che sta sorgendo è l’alibi per i governanti e i governati. Non dico che il progetto europeo sia stato positivo. Io penso tutto il male possibile di come negli ultimi dieci anni è stato gestito. Però dico anche che fa comodo nascondere le proprie colpe sotto il tappeto europeo. Nessuno si prende – come al solito – la propria parte di responsabilità, si può vigliaccamente e criminalmente sostenere che in questo Paese la corruzione non sia un problema. Si può giocare sulla autovittimizzazione per assolvere una classe imprenditoriale incapace, un sindacato seduto su sé stesso. Si può cioè far finta di essere lindi e innocenti dentro al bordello. Il gioco della vergine capitata per caso e contro la sua volontà nel puttanaio è un altro classico nazionale.

Ma non ti pare che in questo modo, anche tu attribuisca la situazione a fattori ontologici e quindi si ricada nel “nulla si può cambiare”?

No, perché alcune occasioni di cambiamento ci sono state e la principale è stata nel 1992 con il crollo dei sistemi di governo nati dal dopoguerra e vissuti nel clima della guerra fredda. Con Tangentopoli – per un momento – c’è stata una reazione al fatalismo e allo scetticismo diffuso, c’era stata l’idea di una liberazione da una “casta” – uso un termine abusato – che aveva espanso i livelli della sua immoralità oltre la sfera del sopportabile. Ma quella reazione – come spesso sembra accadere – non ha generato il rinnovamento della classe politica. Ha semplicemente fatto avanzare la linea dei colonelli che si sono sostituiti ai generali caduti sul campo delle inchieste giudiziarie. Ha favorito l’ascesa di figure solitarie come Berlusconi che altro non è se non il prodotto del sistema che era crollato, perché era nato ed era prosperato in quel sistema. Invece del rinnovamento ci si è accontentati della grande menzogna del bipolarismo, dell’idea cioè che la classe dirigente diventava più decente se semplificava le sue posizioni polarizzandosi in una fittizia sinistra e in una fittizia destra.
Il tutto mentre teorie neoliberiste, con il consenso unanime della classe dirigente, desertificavano i diritti delle persone e smantellavano il welfare state riducendolo ad una parodia.

Ma in tutto questo il popolo non ti è sembrato addormentato?

Per niente. Il popolo ha continuato nella sua rivoluzione permanente a bassa intensità esattamente come prima inglobando alcune parole d’ordine plastificate: “competitività”, “meritocrazia”, e via dicendo. Ha adattato il proprio agire sintonizzandolo sulla retorica neoliberista e riposizionandosi. La classe dirigente ha continuato a fare esattamente quello che faceva prima. L’avvizzimento – per me ingiustificato e ingiustificabile – delle ideologie ha segnato il “libera tutti” e le uniche aggregazioni popolari forti si sono verificate intorno alla difesa dei beni comuni. Ma nessuno ha voluto e saputo utilizzare questi temi per renderli pensiero unificante ed elemento sul quale uscire dalla rivoluzione a bassa intensità e inaugurare una stagione di radicale cambiamento.

In un certo senso il Movimento Cinque Stelle si è posto in questo modo, no?

Stai scherzando spero. Grillo e il suo movimento hanno generato una grossa pentola nella quale bollire a fuoco lento, senza farli mai arrivare alla temperatura giusta per essere affrontati, dei temi importanti. Sotto la forma di non-partito che tutto contesta nella realtà non contesta seriamente nulla. Accoglie tutti i temi, fa appello a tutte le differenze, raccoglie scontenti consci ed inconsci e li sbatte dentro ad un contenitore che li tiene caldi e controllati. Sulla questione europea ti dice che promuoverà un referendum che significa che non ha intenzione di uscire dall’euro ma non vuole dirlo. Sulle questioni ambientali e dei beni comuni si accoda a movimenti spontanei. Li vampirizza un po’ ma soprattutto li sterilizza. E – così facendo – continua a favorire la rivoluzione continua a bassa intensità che non esplode mai. Per esemplificare ancora di più: fare una campagna sul costo dei politici è legittimo ed anche utile ma usare il costo e non affrontare il tema della responsabilità significa sviare i problemi.

Ma allora come se ne esce? Quali idee possono valere per trasformare quella che tu chiami rivoluzione permanente a bassa intensità con un reale cambiamento? Come favorire un nuovo impegno collettivo?

I temi sui quali lavorare sono moltissimi, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Purtroppo quello che vedo è la rincorsa alla creazione di soggetti politici (leggi partitici) altrettanto confusi e forse più di quelli già esistenti. C’è attenzione al contenitore perché si pensa che un contenitore potrebbe canalizzare lo scontento. Non ci sono nell’aria proposte politiche che hanno valore di assunzione di responsabilità ma tentativi di appropriarsi del disagio sociale. Quello che vedo è tatticismo. C’è un buco spaventoso sia a destra che a sinistra. Non esiste più né un grande partito di destra né un grande partito di sinistra perché si è fatta strada l’idea che gli italiani siano un popolo essenzialmente di centro. In questo modo tutti cercano di essere meno definibili possibili. Una specie di politica di marketing che possa captare voti qui e lì. Così tutto si è fatto impreciso, tutto si è omologato. Tutti evitano di prendere posizioni nette su temi difficili: lavoro migrante, politiche di welfare, politica internazionale. Le battaglie si scatenano (apparentemente) su temi periferici rispetto alla sostanza. Il tema che ho visto trattare con grande intensità sul vostro blog è l’euroexit. Bene, questo è un esempio della periferizzazione dei discorsi. Il tema centrale è: “vogliamo continuare a percorrere il sentiero neoliberista?” La periferia del tema è, “vogliamo continuare a stare nell’Euro?”. Scegliere il tema periferico è una operazione di ipocrisia politica. Perché alla fin fine battere sul tasto “Euro sì, Euro no” ha l’indubbio vantaggio di spostare il problema centrale in un “più avanti” indefinito e di cercare di acchiappare consensi a destra e a sinistra. In una prospettiva, appunto, del “poi si vedrà”. E’ più facile parlare di Euro che non di politiche dell’occupazione giovanile. Perché con il 39,5% di disoccupazione nella fascia più giovane dare una risposta significa prendere una posizione netta. Ad un problema del genere devi opporre una ricetta che vada al di là del problema stesso. Devi dire alle persone: “signori, il modello neoliberista ci ha portato qui, occorre uscire dal neoliberismo”. Invece si preferisce dire “l’Euro ci ha portati qui, bisogna uscire dall’Euro” o, dall’altra parte si dice “dobbiamo avere più Europa”. Il che è, francamente, una operazione di scarico delle responsabilità ancora una volta. Perché nessuno, e sottolineo nessuno, ti dice come ridurre la disoccupazione giovanile, gestire il lavoro migrante, amministrare il welfare e rinnovarlo, impostare nuove politiche industriali. Io francamente mi sento preso per il sedere quando qualcuno invece di espormi politiche complessive cerca di concentrare la mia attenzione su un tema periferico.
Ammettiamo per un attimo di essere usciti dall’Euro. Con precisione, dopo, che idea di società e quali scelte si vogliono fare? Che modello c’è dopo? E non basta dire, “intanto usciamo perché se restiamo saremo morti” perché questa è una stupidaggine. La mobilitazione fatta sotto la pressione della paura esime chi fa proposte dallo spiegare bene il dopo. L’obiezione secondo la quale la casa sta bruciando e bisogna uscirne e poi vedere sembra di buon senso ma in realtà è una truffa. Perché uscire dall’Euro non significa uscire dalla casa, significa uscire solo da una stanza. In sostanza si propone di uscire da dove si è ma non si dice che non c’è volontà di uscire dalla casa.

Per casa intendi il pensiero neoliberista?

Di più: intendo il paradigma di crescita complessivo. Questo nessuno lo discute. A destra si ripercorre una strada tradizionale e si dice in sostanza che il capitalismo finanziario è da arrestare. Ma per far cosa? Per sostituirlo? No. A destra ti parlano di un capitalismo “ben temperato”, direi quasi “caritatevole”. Insomma un capitalismo che lasci sopravvivere il dettagliante e il piccolo imprenditore, un capitalismo un po’ autarchico con qualche pezza sul sedere ma sempre capitalismo. A sinistra (in una certa sinistra radicale, perché il resto non è sinistra se non per un concetto di nominalismo) ti parlano di uscita dal capitalismo ma nonostante tutte le eterodossie possibili che esistono in quel campo, rimangono inchiodati al valore del lavoro, alle classi operaie (sempre più striminzite, ma non importa). Il che significa ancora una volta che neppure qui si mette in dubbio il paradigma della crescita. La “crescita” è la parola tabù: nessuno mette in discussione il significato di “crescita”.
Il fatto che il “decrescismo” in Italia sia preso come una teoria bislacca e utopista ti dice chiaramente che il paradigma della crescita come progresso sta lì granitico e intoccabile a destra come a sinistra. Certamente non ha aiutato il “decrescismo” certe posizioni “new age” e certi personaggi ed idee più medioevali che altro. Certe affermazioni di un Latouche sono così folli da contribuire a far catalogare il “decrescismo” come una setta di squinternati. Il problema allora è che non si tratta più di dire “fuori dal capitalismo” perché ci sono tante versioni del capitalismo, versioni hard e versioni soft. Chi ti dice “fuori dal capitalismo” propone sempre la sua idea di capitalismo. Il punto è affermare con decisione che bisogna uscire fuori da un “paradigma di crescita”.

E affermare senza mezzi termini la necessità di uscire dal “paradigma di crescita” aggregherebbe e motiverebbe?

Voglio dire che qualsiasi cosa tu proponi devi proporlo con decisione e senza retropensieri tattici e ambigui. Non bisogna avere paura di perdere voti dicendo le cose precise. Il problema è che nessuno si mobiliterà mai seriamente, nessuno svilupperà mai un pathos, una idealità intorno a delle ambiguità. Devi dire esattamente cosa vuoi su tutti i temi non solo su quelli periferici che ritieni aggreganti. Non puoi stare zitto su quegli argomenti sui quali sai già che potresti non avere il consenso di una parte. Devi dire tutto su tutti i temi, anche scomodi. Devi fare quello che non fa più nessuno: devi prendere posizione, una posizione netta e chiara e lavorare perché su quella convergano le persone. Certo sui temi della cittadinanza se ti dichiari che ne so, per lo ius soli o per lo ius sanguinis a seconda di dove ti collochi, perdi consenso dall’altra parte. Ma se vuoi fare politica devi credere in quello che dici. Se fai pretattica non vuoi cambiare le cose, vuoi prendere il potere. Ma prendere il potere restando ambiguo ti rende definitivamente ambiguo. La gente ti osserva. Capisce se credi in quello che dici, se affronti il nocciolo della questione. C’è gente come Casaleggio che nelle interviste preconizza (e secondo me si augura) disordini e violenze causate da uno shock economico. E, nell’attesa dei moti di piazza, sta seduta a guardare illudendosi di cavalcare l’onda quando arriverà. Ma l’esperienza ci dice che in situazioni anche più estreme (penso alla Grecia) la rivolta non sta generando alcun cambiamento. Per generare cambiamento ci vuole una proposta globale di rinnovamento della società. Una proposta completa, che non trascuri niente, che non taccia su niente. Occorre dare alle persone risposte non ambigue su tutti i temi. La gente non vuole sentirsi dire: “su questo ci penseremo poi”. Non vuole una proposta che ti faccia solo uscire da una stanza mentre la casa continua a bruciare. Non vuole sentirsi dare delle risposte parziali. La gente non vuole marketing politico, “politiche di fase”, tatticismi: la gente vuole cuore, convinzione, impegno, chiarezza, competenza. E nessuno gliela sta dando. Prima ancora di pensare a come rendere comprensibile un programma sul quale aggregare le persone bisogna che sia “vissuto autenticamente” da chi lo propone. Bisogna ascoltare e bisogna prendere posizione.

Gli intellettuali in tempo di crisi (parte seconda)

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Per affrontare il problema delle possibilità degli intellettuali di incidere sulla realtà sociale userò tre autori: Zygmunt Bauman, Wolf Lepenis e Enzo Traverso.
Per quanto riguarda Bauman faccio riferimento al libro intitolato “La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti”. Come spesso accade nelle traduzioni italiane, la ricerca del titolo che colpisca il possibile acquirente modifica le originali intenzioni dell’autore. Il titolo originale era “Legislators and interpreters. On modernity, post modernity and intellectuals” e, quindi, non faceva riferimento alla “decadenza” ma alla nascita e alla evoluzione della figura dell’intellettuale. Bauman rintraccia l’origine degli intellettuali rifacendosi al lavoro dell’antropologo americano Paul Radin che scriveva “l’uomo primitivo ha paura di una cosa: le incertezze della lotta per la vita”. Così una maggioranza dedita al quotidiano rapporto con il materiale (caccia, allevamento, agricoltura) sentì il bisogno di avere una minoranza che riflettesse “capitalizzando il senso d’insicurezza” e fornendo delle risposte. Nasceva così il “pensatore religioso” che si occupava di fissare delle regole di comportamento in grado di allontanare i pericoli della vita quotidiana. Sciamani, maghi, preti diventano non solo coloro che “spiegano il mondo” ma anche coloro che fissano delle regole. Ciò implica che il “pensatore religioso”, quasi automaticamente, si trasforma in legislatore. Il fatto che la società occidentale compia nei secoli un percorso verso la secolarizzazione diluisce l’identificazione del “pensatore” con il “religioso” sino ad arrivare alle soglie del XVIII secolo con l’affermarsi di “pensatori” laici.

Zygmunt Bauman

Zygmunt Bauman

I philosophes francesi del ‘700  si posero, quasi programmaticamente, il compito di trasmettere i principi del razionalismo al popolo. Ingenuamente – dice Bauman – i Philosophes pensavano che le persone fossero naturalmente spinte verso il desiderio di apprendere (loro tramite) dalla razionalità che alberga in ognuno di noi. In realtà era l’assolutismo illuminato (si pensi a Federico II) che entrando in crisi formulava richieste implicite per una educazione che ripuntellasse il suo dominio. In altre parole: l’Ancien Regime tentò di preservarsi dando voce ai Voltaire e ai Rousseau. Il tentativo non funzionò e fu invece la rivoluzione francese a utilizzare le idee degli intellettuali illuministi. Ma in quale chiave? La borghsia vincente usò il radicalismo illuminato  “come una spinta a legiferare, organizzare e regolamentare, piuttosto che diffondere conoscenza” (p. 89).
Si verificò allora, per la prima volta in modo palese, il principale problema che si pone agli intelletuali: con il loro operare colgono il mondo della ragione, ma vivono in un mondo in cui le idee soccombono ai fatti. Ma a ciò si aggiunge l’ulteriore corollario che a “gestire” i fatti, sono persone che non riconoscono alle idee l’importanza attribuita dagli intellettuali. I dirigenti rivoluzionari francesi, dai giacobini sino al Direttorio erano poco preoccupati dell’ignoranza del popolo ma, all’inverso, molto più decisi a “a riplasmare i sudditi secondo la propria immagine” perché quel che il potere “ricerca, spietatamente e irriducibilmente, è il riconoscimento da parte dei sudditi della superiorità del tipo di vita che esso rappresenta e da cui trae la propria autorità” (p. 63).
Per la prima volta nel Settecento si verifica la contrapposizione tra potere e sapere di cui parla Foucault. Gli intellettuali per cambiare la società secondo le proprie idee dovevano avere il potere ma avevano solo il sapere. Dall’altro lato il potere dimostrava di non aver bisogno di tutto il sapere che i philosophes fornivano ma solo di quel tanto che poteva essere usato utilmente. Dopo aver affossato la Rivoluzione, Napoleone con grande efficienza, eliminò sistematicamente tutti tentativi di ingerenza del sapere teorico su quello politico. Dall’inizio dell’Ottocento in poi i governi europei utilizzarono quelle idee che meglio potevano essere funzionali al controllo della società. Insomma attuarono quel processo che Foucault individua nel suo “Sorvegliare e Punire”.
Da questo momento in poi l’intellettuale rimane un signore che crede di sapere come si dovrebbero fare le cose ma non ha alcun potere per indirizzarle politicamente. Per Bauman l’intellettuale entra nel mondo moderno perdendo la sua capacità primitiva di “legislatore” riducendosi a “interprete” ossia colui che spiega agli altri le dinamiche in base alle quali le cose vengono compiute. Dato che il potere ha scelto di limitare gli effetti del sapere, gli intellettuali che si accontentano di interpretare legittimano qualunque posizione assunta dal potere.
A Bauman interessa dimostrare la parabola delle élite culturali europee che da detentori del potere diventano coloro che devono costantemente fare i conti con esso. E facendo questi conti ha due possibilità: continuare a riprogettare il mondo e le sue strutture o farsi mediatore o, meglio, traduttore tra la classe dominante e quella dominata. Per Bauman il compito che l’intellettuale si deve assumere è il secondo. Deve cioè essere il ponte che favorisce il dialogo tra chi detiene il potere e chi lo subisce. Non c’è più progettazione del futuro e, neppure, comprensione del presente in quanto “coscienza critica della società” ma semplice mediazione. Insomma la funzione dell’intellettuale come fabbricatore di idee viene annichilita e, con essa, anche quella dell’intellettuale stesso.
Ovviamente a me la conclusione di Bauman piace molto poco tuttavia ha il merito di fotografare una situazione oggettiva: la gran parte degli intellettuali non progetta più il futuro ma, nella migliore delle ipotesi, “smussa” le asprezze del potere e, nella peggiore, se ne fa portavoce “organico”.

Il libro di Lepenis, “Ascesa e declino degli intellettuali” muoveva i suoi passi a partire dal crollo del muro di Berlino nel 1989. Il suo ragionamento era abbastanza simili alle teorie della “fine della storia” di Fukuyama: il crollo del sistema di potere sovietico ha segnato la scomparsa di ogni alternativa ideologica al liberalismo. L’esistenza di un unico modello con il quale pensare la società e la sua gestione attraverso le istituzioni politiche ed economiche cancella la possibilità stessa dell’esistenza dell’intellettuale. Ma attenzione: Lepenis dice che a scomparire è l’intellettuale “lamentoso”, ossia quell’intellettuale che “si lamenta del mondo, ma da questa sofferenza nasce un pensiero utopico che disegna un mondo nuovo e quindi contemporaneamente allontana la malinconia”. In un mondo con un solo modello questo intellettuale non serve più a nulla e viene sostituito dallo scienziato.

Wolf Lepenies

Wolf Lepenies

Dice Lepenies. “… gli scienziati non si disperano per il mondo, ma si sforzano di spiegarlo, non pensano utopisticamente, ma elaborano previsioni; il loro agire non è caratterizzato né dalla disperazione né dalla speranza, ma dalla obiettività e dal possesso di una coscienza tranquilla. Qui c’è l’inizio di quel dualismo fra «classe lamentosa» e «uomini dalla coscienza tranquilla» che separa la classe intellettuale europea, quel dualismo che si trova espresso, in maniera non del tutto soddisfacente, nella distinzione corrente fra le «due culture», quella dei letterati e degli umanisti da un lato, e quella degli scienziati dall’altro” (pp. 11-12). Lepenies ci dice che scienziato e neoliberismo sono intimamente connessi. Lo scienziato è l’intellettuale “naturalmente organico” al potere neoliberista. E non potrebbe essere altrimenti perché il dogma centrale del liberalismo europeo è il mito del progresso tecnico e scientifico. Progresso che viene avallato dall’atteggiamento asettico dello scienziato.
Fermiamoci qui un momento e vediamo dove il ragionamento di Bauman e quello di Lepenis possono coincidere e dare qualche frutto. L’intellettuale che si fa “mediatore” tra il potere e la massa delle persone, per me, si identifica in modo completo con gli «uomini dalla coscienza tranquilla», coloro che spiegano il mondo e fanno previsioni sul suo andamento. Allora potrei dire che mentre lo scienziato scoppia di salute, ad andare in crisi e a rischiare la scomparsa è l’intellettuale che fa parte della «classe lamentosa». Perché?
Perché l’intellettuale “lamentoso” e umanista non ha più un mercato. Non c’è domanda per ciò che può offrire. In una società che ha un solo modello la richiesta è far funzionare il modello nel modo migliore, non immaginarne uno differente. Ed è allora che salgono alla ribalta gli intellettuali-idraulici, primi fra tutti gli economisti. Non importa che gli economisti non siano scienziati: sono stati arruolati (con loro immenso piacere) nella categoria. L’economista è lo scienziato che fa previsioni, uno stregone contemporaneo, che, agitando diagrammi e sventolando formule matematiche si accredita come l’idraulico del sistema. Anche quando sembra contestare il sistema lo puntella e accredita la possibilità di un felice riaggiustamento del tubo capitalista danneggiato. Perché leconomista-idraulico ha questa audience? Perché, evidentemente, è l’ideale mediatore tra la massa che vuole stare più comodamente possibile dentro il capitalismo e il capitalismo stesso. Assomiglia a quegli addetti stampa che, quando c’è un problema drammatico in fabbrica, si presentano al posto dell’amministratore delegato. Ma non basta. La fortuna dell’economista-idraulico è favorita da ciò che dicevo prima: dalla credenza che l’unico modello possibile sia il capitalismo così com’è. Molti anni fa lo stupefacente di massa era l’eroina e allucinogeni come l’LSD. L’uso e la diffusione di queste droghe era fortemente collegato ad una contestazione del sistema. Con queste droghe si “viaggiava” altrove, si usciva pisichedelicamente fuori dal sistema. Oggi lo stupefacente più diffuso è la cocaina. E si tratta di una droga che non serve a “uscire” dal sistema ma a starci dentro ancora meglio, a stare dentro alla macchina con più “performance”. Ci si droga per essere più “produttivi”, più “efficienti”. Allo stesso modo si va a chiedere oracoli all’economista-idraulico per avere rassicurazioni sul futuro rifunzionamento del sistema che, quando avverrà, donerà di nuovo a tutti la potenza del consumo e del PIL, come fosse Viagra.
Ed allora non c’è da stupirsi che gli “intellettuali lamentosi”, quelli critici del sistema siano per la stragrande maggioranza sociologi, antropologi, storici, filosofi. Gallino, Harvey, Saskia Sassen, Sennett, Augé per citare a caso i vivi; Foucault, Bourdieu, Arrighi per citare qualcuno che è trapassato. Questi intellettuali non sono scienziati, non sono uomini dalla «uomini dalla coscienza tranquilla». Ma hanno poca audience per due motivi: non offrono una visione di riaggiustamento del sistema (il che è un bene dal mio punto di vista) ma non offrono neppure un modello nuovo ed alternativo.
Veniamo ora al terzo libro: Enzo Traverso, “Où sont passés les intellectuels?” Les Éditions Textuel, 2013. Si tratta di un libro intervista di uno dei più brillanti storici della violenza contemporanei. Da sempre marxista e con una esperienza giovanile in Potere Operaio prima di emigrare e diventare docente in Francia e, oggi, professore alla Cornell University. Anche Traverso, come Lepenies, pone il 1989 come spartiacque. Dopo il crollo del blocco sovietico, per Traverso, succedono due cose: da un lato l’opera culturale viene massicciamente trasformata in oggetto di consumo e dall’altro l’intellettuale cerca di adeguarsi trasformandosi in “esperto”. In questo modo il pensiero critico viene assassinato perché la figura dell’”esperto” si associa a quello del “tecnico” che dovrebbe

Vincenzo Traverso

Vincenzo Traverso

fornire un pensiero “neutrale”.  Ma l’esperto non ha più legami con i movimenti sociali, non è più “coscienza critica”. Il luogo di “creazione” degli intellettuali, l’Università, sforna ormai solamente questi “esperti” perfettamente allineati al potere. L’intellettuale è diventato ospite televisivo chiamato a “spiegare il mondo” non a esercitare una critica del mondo. Gli esempi, riferiti alla Francia, vanno a colpire nomi famosi: Bernard-Henri Lévy,  Bernard Kouchner, Alain Minc verso i quali Traverso è tutt’altro che tenero. Tuttavia Traverso non è pessimista: le risposte plastificate degli “esperti” diventano sempre più inadeguate e gli spazi di denuncia sono aperti dall’aumentare delle diseguaglianze e delle ingiustizie. Il punto è che l’intellettuale che possa essere “coscienza critica” non è il giornalista, il professore universitario mediatizzato ma il ricercatore critico che si annida dentro le ONG, che produce controinformazione. Questo intellettuale è anche “diffuso”, ossia non è nei luoghi dove i media lo cercano (Università, Centri di ricerca, pensatoi sponsorizzati dalle multinazionali) e non cerca i media. Ed è lui, per Traverso, che sarà il protagonista di una rivoluzione che potrei definire “a bassa intensità”, ossia una rivoluzione continua e strisciante, logorante per il sistema. Perché per Traverso una rivoluzione ci sarà ma non sarà una rivoluzione comunista, bensì una rivoluzione per i beni comuni contro i beni di consumo, contro il mercato e per la dignità. Ma non sarà neppure una rivoluzione “apolitica” come Occupy, le varie “primavere” o un ecologismo generico, perché queste ultime sono ritenute “rivoluzioni” solo nella misura in cui vengono mediatizzate.
Dunque c’è ancora spazio per l’intellettuale che sia coscienza critica a sentire Traverso ed altri. Il problema è che questo nuovo intellettuale non è dove tradizionalmente stava. Si tratta di un intellettuale non garantito, non conforme, non curriculare che diffonde il suo “sapere” attraverso i mezzi meno spettacolarizzati. Non a caso il web è il veicolo ideale di diffusione di questi saperi. E cosa più nuova è che questi “saperi” non viaggiano con il copyright di nomi e cognomi ed è proprio per questo che possono diventare diffusi e condivisi.
Allora, alla fine, devo una risposta a Lorenzo, il commentatore, che chiedeva “cosa inventarci (partito-associazione-fronte-altro) le strutture che trasformano le analisi precise e puntuali in programmi politici di intervento e trasformazione della società? come trasferire (in tempi non lunghi sennò saremo morti) il vostro “sapere” a noi comuni cittadini sbandati e spaesati?” E la risposta – per me – è che il trasferimento delle idee è già in corso e sta fuori dalla televisione, dai giornali. Non è negli intellettuali mediatizzati, negli economisti-idraulici. Sta nel pensiero che si condivide e occorre fare più fatica. Occorre discuterlo a fondo, commentarlo, contestarlo e farlo proprio. Occorre imporsi di non essere né sbandati né spaesati. Le analisi precise si trasformano in programmi politici non cura di chi le analisi le ha fatte, ma a cura di chi quelle analisi le ha vagliate criticamente. Il pensiero critico “galleggia”, occorre afferrarlo perché “galleggia” in luoghi bui, non illuminati dallo spettacolo da circo dei media. Chi lo ha messo in circolo lo ha lasciato andare nella speranza che qualcuno lo afferri. Cominciamo col prenderlo. cominciamo col ridurre “spaesamento” e senso di deriva. Le forme pratiche per trasformare le idee critiche in azione politica affiorano quando le idee sono buone.