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Francese, professore di lingue e civiltà orientali, grande fotografo e antropologo ha sviluppato un interesse particolare per lo sviluppo in senso capitalista delle economie asiatiche sulle orme di Arrighi. L’abbiamo arruolato come ArsLonga-Francia e intervistato su quanto ha visto nel suo ultimo viaggio.
Finalmente a casa. Dove sei stato questa volta?
In Mongolia, a Ulan Bator una “fabbrica del capitalismo” particolarmente ignorata dai media occidentali tutti concentrati sulla Cina.
Qual’è la situazione laggiù?
Direi che siamo nel centro dell’esperimento più estremo del capitalismo internazionale. Sta crollando completamente una struttura di civiltà durata venticinque secoli ad una velocità assolutamente incredibile.
In che senso crollando?
La prima volta che sono stato in Mongolia fu nel 1975. Poi ci sono tornato mediamente ogni due o al massimo tre anni. La Mongolia ha una sua storia particolare nel corso del Novecento. Si tratta di un Paese enorme e spopolato: cinque volte le dimensioni dell’Italia con poco più di tre milioni di abitanti. Fino al 2004 è stato un Paese “immobile” che viveva di pastorizia e che non era stato minimamente intaccato dallo sviluppo industriale. E questo nonostante fosse nella sfera di influenza sovietica con un governo – almeno formalmente – comunista. Dopo il 1989, con grande lentezza, qualcosa ha cominciato a muoversi, dapprima lentamente, poi ad una velocità sempre maggiore. Quando l’Unione Sovietica è definitivamente crollata la Mongolia è entrata a far parete del grande circo del capitalismo mondiale. All’epoca dei miei primi viaggi l’85% dei mongoli vivevano di pastorizia ed erano un popolo nomade. Oggi questa percentuale si è quasi ribaltata: il 60% dei mongoli oggi si occupa d’altro.
Di cosa?
Soprattutto di estrazioni minerarie. E’ bastato poco per scoprire chela Mongolia è un tesoro fatto di oro, carbone, rame (diventato sempre più raro), uranio e probabilmente altro che ancora non sappiamo ufficialmente. Due nazioni occidentali sono arrivate per prime e hanno preso in mano il bottino: inglesi e australiani. la grande società Rio Tinto controlla la gigantesca miniera di Oyu Tolgoi. In Occidente si sa poco di questo sito ma lo considero il simbolo del devastante cambiamento che la Mongolia sta subendo. Sono arrivati i canadesi della Ivanhoe Mines nel 2001 ed hanno lavorato per dodici anni per trovare il punto più promettente per iniziare lo sfruttamento. Mentre mi trovavo lì sono cominciate le attività estrattive vere e proprie. Non ho capito bene, sto cercando di raccogliere più informazioni, ma a quanto ho capito la Rio Tinto ha creato una società: la Torquoise Hill Ltd (Oyu Tolgoi in mongolo significa “collina di turchese”) e ci ha messo dentro i suoi uomini e donne migliori. Ma la Rio Tinto non è sola nel board: i canadesi sono presenti attraverso la Sun Life Financial Quebec. Poi ci sono altri giganti del settore minerario: la Silver Wheaton Corporation, la Dundee Precious Metals e la Sherritt International Corporation. La Rio Tinto Group è un colosso spaventoso. Ha attraversato tutta la storia del capitalismo moderno, dalla sua fondazione nel 1873 ad oggi. Tra il 2007 ed il 2008 vi fu una guerra tra le grandi corporation dell’estrazione e al centro ci fu proprio la Rio Tinto. La BHP Billiton lanciò un’OPA ostile per mangiarsi la Rio Tinto. L’operazione fu lanciata – ne sono convinto – proprio perché si era capito cosa c’era a Oyu Tolgoi. Ma l’OPA venne respinta grazie all’intervento della Chinalco (la società mineraria di Stato della Repubblica Cinese) e della Alcoa. Tanto per capirci: la Rio Tinto fino al 2006 aveva il 56% della proprietà della Euralluminia in Sardegna e passava parte del prodotto all’Alcoa. Insomma non sto parlando di società che in Italia dovreste ignorare.
Scusami però mi sono un po’ perso … chi possiede realmente la miniera di Oyu Tolgoi?
Canadesi, australiani e cinesi. E questo perché la Torquoise Hill Ltd è di proprietà della Rio Tinto Group. Ma la storia è degna di un romanzo di Conrad. Ti ho detto che i primi ad arrivare a Oyu Tolgoi sono stati i canadesi della Ivanhoe Mines. Il capo di questa società era Robert Friedland. Questo signore è per me l’incarnazione del capitalismo globale. Ci vorrebbe un romanziere per scriverne la storia. A vent’anni il giovane Friedland viene arrestato dall’FBI per il possesso di una quantità di LSD del valore di circa 120.000 dollari. Si passa due anni in una prigione federale. Uscito cambia college e, contemporaneamente fonda una comune agricola su un terreno coltivato ad alberi di mele. E guarda caso conosce Steve Jobs che diventa un frequentatore della comune agricola. Insomma Friedland è un tipo non solo dotato di pelo sullo stomaco ma anche di grandi
contatti. Ha tre passaporti: americano, canadese ed è ufficialmente residente a Singapore. La Ivanhoe Capital sta a Singapore ma la controllata Ivanhoe Mining ha la sede legale in Canada e viene fondata nel 1994. Contemporaneamente Friedland era anche proprietario della Summtville mine una miniera d’oro in Colorado, attraverso la Galactic Resources Ltd. Si trattava di una miniera d’oro sfruttata sin dal 1870. Friedland si mise in testa di sfruttarla con nuovi metodi. Il governo sospese l’attività dopo che il fiume Alamosa risultò inquinato da metalli pesanti ed acidi. Friedland non ebbe conseguenze penali ma la società pagò trenta milioni di dollari per la bonifica dell’area. Ufficialmente non venne stabilita una correlazione tra l’attività mineraria e l’inquinamento. La Ivanhoe Mining operava anche in Myanmair (Birmania) ed estraeva rame anche se il governo canadese aveva dichiarato l’embargo e vietato alle industrie nazionali di operare in Birmania. In più le campagne vicino alla miniera di Monywa sono risultate contaminate dalle sostanze usate nella miniera. Il governo canadese aprì una inchiesta ma nel 2007 la Myanmar Ivanhoe Copper Company Limited, spostò le sue proprietà ad un blind trust denominato Monywa Trust. Formalemnte la Ivanhoe Mining dunque non operava più in Birmania. Nel 2010 la Norinco, la principale impresa cinese produttrice di armi, annunciò di aver stretto un accordo con il governo birmano per lo sfruttamento della miniera di Monywa. Ufficialmente la Ivanhoe Mining non opera più lì ma c’è il suo blind trust. E non è affatto chiaro se collabori o meno con i cinesi della Norinco.
Un bel pedigree insomma, ma come arriva Friedland in Mongolia?
Ci arriva verso il 2000 e comincia ad esplorare la zona. All’inizio nessuno lo disturba. La Mongolia all’epoca è un “anus mundi” di cui nessuno si interessa. Ma un conto è scoprire le potenzialità minerarie, in conto è sfruttarle. Servono soldi. Per la precisione erano stati stimati più di 8 miliardi di dollari. Friedland non ce la può fare da solo. Così nel 2007 vende tutti i suoi diritti minerari su un altro sito (Ovoot Tolgoi) alla Asia Gold Corporation (che oggi si choma SouthGobi) in cambio Friedland diventa proprietario del 45% della Asia Gold Corporation. Nello stesso 2007 la Rio Tinto fa un prestito a Friedland di 350 milioni di dollari per continuare il lavoro a Così arriva la Rio Tinto che acquista il 22% delle azioni della Ivanhoe Mines e comincia a finanziare il progetto di sfruttamento a Oyu Tolgoi. Nel 2009 diventa certa la presenza non solo di oro ma anche di uranio e molibdeno. La Rio Tinto capisce che l’operazione va condotta in prima persona e, nel giro di due anni, fa fuori Friedland. Fa fuori si fa per dire. Nel 2012 la Ivanhoe Mills vende il suo 57% di azioni della SouthGobi ai cinesi della Chalco per 899 milioni di dollari. Sempre nel 2012 la Rio Tinto compra per 935 milioni di dollari le azioni della Ivanhoe Mining, il 3 agosto dello stesso anno Friedland si dimette da amministratore delegato e la Ivanhoe Mines diventa Turquoise Hill Resources. Ovviamente Friedland non è finito sotto un ponte, mi risulta sia in Sud Africa con un nuovo progetto minerario.
Benissimo. Allora la Tinto Group ha ora in mano questa favolosa miniera in Mongolia. E ora cosa sta succedendo?
Adesso viene il bello. Ufficialmente a Oyou Tolgoi ci sono da scavare rame e oro in quantità astronomiche. A pieno regime la miniera dovrebbe rappresentare il 34% del PIL di tutta la Mongolia. Per quanto gigantesche siano queste stime la miniera di Oyou Tolgoi è poco più grande di sette chilometri quadrati. Nessuno può dire cosa ci sia sotto il deserto del Gobi. Perciò stanno arrivando da ogni parte del mondo i più grossi avvoltoi del capitalismo globale. Noi francesi siamo lì con la Areva che è una azienda pubblica. C’è una bella torta da spartire e le briciole finiscono anche ai mongoli.
Briciole?
In primo luogo servono minatori e non pastori nomadi. Perciò si sta verificando una fenomenale trasformazione antropologica: i pastori diventano operai. E per far questo si concentrano intorno ai siti minerari. Ma bisogna fare un passo indietro. Lo stato socialista aveva già iniziato a cercare di industrializzare il Paese e c’era già stato un fenomeno di inurbazione intorno alla capitale Ulan Bator. Quando il comunismo crollò tutto il sistema economico collassò e gli operai tornarono alle attività tradizionali di pastorizia per garantirsi di che vivere. In questo deserto economico i primi ad arrivare siete voi italiani alla ricerca di cachemire a buon mercato. Chi cerca cachemire o va in Cina o va in Mongolia. All’inizio degli anno Novanta era più facile e più economica la Mongolia a pezzi che non una Cina con un governo attento ed efficiente nei controlli delle attività straniere. L’Italia è il primo trasformatore di cachemire con il 60% dell’import mondiale. Non è un caso perciò che siano presenti aziende come Loro Piana, la Monital del gruppo Schneider e la Futura Fashion Group che controlla la più importante conceria della Mongolia e una fabbrica di calzature. La produzione del cachemire ai livelli richiesti dall’industria italiana è la negazione stessa del concetto tradizionale di pastorizia nomade. Il nomadismo non è compatibile con l’industrializzazione del cachemire.
Mentre tutto questo accadeva la Mongolia è entrata a pieno titolo nel capitalismo. Modernizzare il Paese ha significato varare riforme neoliberiste: eliminazione dei sussidi sociali, privatizzazione delle imprese, abolizione della copertura sanitaria gratuita, privatizzazione del sistema scolastico, etc. Bisognava attirare capitali e perciò è stata smantellata buona parte della legislazione in grado di controllare le attività straniere nel Paese. Così, anno dopo anno sono cresciuti i molto ricchi e i molto poveri. Ben presto la gente ha cominciato a cercar lavoro nella capitale che ha avuto una esplosione demografica, tant’è che oggi lacune stime affermano che il 50% dei Mongoli viva a Ulan Bator. L’aspetto della capitale non è quello di una bidonville africana perché le abitazioni dei nuovi arrivati sono le classiche yurte, le tende tradizionali. Un turista poco cosciente di quello che sta succedendo potrebbe trovare la cosa persino pittoresca. Ma tutto questo stravolgimento non sta facendo crescere il Paese.
Eppure secondo i dati la Mongolia in termini di PIL sta crescendo più della Cina ….
Certo in termini di PIL. Ma un lavoratore mongolo non guadagna più di 200 dollari al mese, quando le cose gli vanno bene. Ad arricchirsi è una classe politica adeguatamente corrotta dalle multinazionali. L’ex presidente Nambaryn Ėnhbajar, esponente del passato regime comunista, dopo aver governato il Paese dal 2005 al 2009, è stato arrestato nel 2012 per aver accettato denaro sottobanco in cambio della privatizzazione degli alberghi di Stato. In seguito è stato condannato anche se la pena poi è stata ridotta progressivamente dai sette iniziali a due anni e mezzo ed infine è intervenuta la grazia. Il nuovo presidente, Tsakhiagiin Elbegdorj, è molto più attento del suo predecessore e ha sviluppato una politica di netto avvicinamento agli Stati Uniti per controbilanciare l’odiato vicino cinese. Nel frattempo Ulan Bator è una delle città più inquinate del mondo e la corruzione continua. E che della corruzione siano protagoniste le società straniere, specie quelle minerarie, è testimoniato dal recente scandalo della South Gobi. Nell’ottobre 2012 Sarah Armstrong, capo dell’ufficio legale dell’azienda mineraria, è stata arrestata e gli è stata negata la possibilità di lasciare il Paese. Si è trattato di un vero e proprio “affaire” diplomatico degno di un racconto di Graham Greene. Il caso si è risolto soltanto dopo due mesi e la Armstrong è potuta tornare in Australia. E non è il primo caso. Nel 2009 quattro manager della Rio Tinto erano stati arrestati per corruzione di pubblici ufficiali in Cina. Nel maggio del 2013 è finito sotto processo il capo dell’ufficio finanziario della South Gobi, Justin Capla per corruzione e riciclaggio di denaro. Tutte queste vicende sono la punta di un iceberg. Sotto il pelo dell’acqua c’è un sistema di corruttela generalizzato che, ogni tanto, sfocia in qualche regolamento di conti. Apparentemente sembra che lo Stato cerchi di delimitare lo strapotere delle compagnie straniere, in realtà è più probabile che si tratti di un continuo “trattare” le condizioni di arricchimento della classe politica. Ci sono continui scontri: le autorità mongole vogliono più soldi, la Rio Tinto vuole pagare meno tasse. In questi scontri i dirigenti mongoli usano le accuse di corruzione e la Rio Tinto usa il ricatto dei licenziamenti. La scorsa settimana la Rio Tinto ha annunciato il taglio di 1.700 posti di lavoro. E questo ad un mese dall’inizio delle estrazioni. Ovviamente non c’è un problema di produttività: le stime più prudenti sostengono che la miniera è in grado di produrre quando sarà a pieno regime 450.000 tonnellate di rame e 330.000 once d’oro all’anno e una quantità imprecisata di argento, molibdeno e argento. Semplicemente la Rio Tinto non vuole pagare più del miliardo di dollari di tasse all’anno stabilito dagli accordi con il governo. Così l’arma del ricatto sono i lavoratori: più di 10.000 in mezzo al deserto. Si tratta di una guerra che le corporation combattono con i governi e tra di loro. In Guinea due anni fa la Rio Tinto ha dovuto passare la mano per contrasti con il governo per lo sfruttamento della miniera di ferro di Simandou (ma in realtà si tratta di bauxite). Ne ha approfittato la BSG Resources la compagnia mineraria israeliana del miliardario Beny Steinmetz. Ma anche la BSG è entrata in rotta di collisione con il governo della Guinea. La BSG accusa la Rio Tinto di aver istigato le alte richieste guineane. Persino George Soros è della partita. Insomma è una lotta senza esclusione di colpi. La posta in gioco è altissima.
Perciò come vedi il futuro della Mongolia?
Non sono ottimista. Da un lato è evidente che non c’è abbastanza forza lavoro in tutto il Paese per i progetti faraonici delle industrie minerarie. Perciò c’è da aspettarsi ulteriori tensioni per l’arrivo – credo massiccio in futuro – di lavoratori stranieri. L’economia è totalmente nelle mani di imprese straniere, la classe dirigente è corrotta, le ricadute in termini di ricchezza non arriveranno al popolo. Basta un esempio: nonostante la crescita del PIL nella capitale solo l’11% delle strade sono asfaltate. Il Paese manca di infrastrutture e di una legislazione sociale minimale. La miscela del nuovo colonialismo è chiara e funziona benissimo: classi dirigenti corrotte, multinazionali come vere agenzie politiche e distribuzione ineguale dei profitti generati dallo sfruttamento minerario. In più all’orizzonte si profilano disastri ecologici nelle aree minerarie dove, di fatto, non esiste alcun controllo delle tecniche estrattive. Ma quanto sta succedendo in Mongolia sta succedendo
ovunque. Basta vedere la crescita del PIL mondiale. Le nazioni che crescono di più sono – oltre ai BRICS – quelle africane e asiatiche, specie quelle arretrate. Il continente africano è cresciuto ininterrottamente per dieci anni. Nel 2013 la Banca Mondiale stima per il continente africano una crescita del 5,6% e, anche qui, come in Mongolia, il fenomeno dell’inurbazione sta crescendo vertiginosamente. Anche qui le corporation si muovono con la stessa logica: sfruttare le risorse minerarie. L’Asia orientale e il Pacifico crescono del 7,5% nel 2012 ma più di un miliardo di persone vive con meno di due dollari al giorno. L’America meridionale cresce al ritmo del 3,5% e anche qui abbiamo le stesse dinamiche. Un flusso gigantesco di investimenti si sta ininterrottamente dirigendo verso il Sud del mondo a caccia di materie prime. Il futuro è identico a quello che abbiamo già visto con il colonialismo di fine Ottocento: un flusso di ricchezza che si sposta dai Paesi poveri verso i Paesi ricchi.
Quindi siamo usciti dalla grande crisi?
Siamo entrati in una nuova fase del capitalismo globale. L’espansione finanziaria ha permesso al capitalismo di assumere un’altra forma., più adatta ai cambiamenti. La presenza di nuovi attori sul palcoscenico (Cina soprattutto ma anche India) ha richiesto anni per essere metabolizzata. Ma oggi il capitalismo è più forte che mai e sta seguendo una linea di sviluppo assolutamente nuova. Ti devo consigliare di leggere o rileggere un vecchio libro di Immanuel Wallerstein, “Historical capitalism with capitalist civilization”, visto che conosci Wallerstein dovresti ricordarti quanto diceva a proposito dell’impoverimento degli stati periferici del mondo. Stiamo andando dritti verso quella direzione e il capitalismo si è attrezzato, attraverso questa crisi, a compiere la sua missione. Il primo carico di materie prime è partito da Oyu Tolgoi il 10 luglio 2013: è solo l’inizio.