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La questione è abbastanza semplice. Nel maggio 2012 il senato accademico del Politecnico di Milano approva un provvedimento che prevede corsi di laurea magistrale e dottorati tenuti esclusivamente in inglese. Contro questa deliberazione – fortemente voluta dal rettore Giovanni Azzone – si mobilita un centinaio di docenti che presentano un ricorso al Tribunale Amministrativo della Lombardia. Dei giorni scorsi è la sentenza con una motivazione fortemente articolata. La decisione di Azzone e sodali viene respinta in considerazione del diritto allo studio e, soprattutto, con riferimento all’articolo 6 della Costituzione italiana. Articolo che – insieme all’articolo 3 comma 1 – vieta discriminazioni in base alla lingua.
Il rettore, agitando la necessità a questo punto di chiarire gli spazi di autonomia dell’Università, farà ricorso al Consiglio di Stato. Tutto qui se non fosse che questa idea del rettore Azzone non è la sparata di un tecnocrate annoiato. Certamente Azzone è un tecnocrate, nella moderna dizione è un “ingegnere gestionale”.  Una branca “novissima” che ha ibridazioni provenienti dall’economia e dall’ingegneria. Suppongo non sia neppure una persona annoiata vista la prodigiosa carriera che in dieci anni lo ha portato da neolaureato a professore ordinario e poi a prestigiosi incarichi per la Presidenza del Consiglio.
Perciò da un uomo così intelligente e di grande preparazione non si può supporre che la decisione del senato accademico da lui sponsorizzata sia una iniziativa “viscerale” o nata da un qualche ghiribizzo personale. Si tratta invece di un frammento di una partita che si sta giocando in diversi Paesi. Si tratta di quella che Serge Haimi sull’ultimo numero di “Le Monde Diplomatique” chiama questione della “lingua unica”. In Francia infatti in questi giorni il ministro dell’insegnamento superiore e della ricerca, Geneviève Fioraso, socialista ed ex docente di inglese, ha dichiarato che il francese nelle Università francesi è un  “ostacolo linguistico” che scoraggerebbe l’afflusso di studenti stranieri negli Atenei d’Oltralpe. Contemporaneamente un manipolo di docenti universitari francesi ha promosso iniziative del tutto simili a quelle di Azzone a Milano. Con un funambolismo dialettico degno di giocolieri da circo alcuni nomi illustri dell’intellighenzia tecnocratica francese hanno sponsorizzato pubblicamente sulle pagine di Le Monde del 7 maggio scorso una legge che favorisca i corsi impartiti soltanto in inglese. Perché in Francia esiste una legge. la legge Toubon, che specificache “negli istituti didattici pubblici e privati la lingua dell’insegnamento, degli esami e dei concorsi, nonché delle tesi e dei saggi è il francese”. Con una legge così un Azzone in Francia non avrebbe neppure potuto sognarsi la sua iniziativa. In Francia invece occorre smantellare questa legge. La cricca dei proponenti francesi cheha firmato l’articolo su Le Monde lo sa e, per screditare la legge Toubon afferma che si tratta di una “legge del secolo scorso”. Il che è tecnicamente vero perché la legge è del 1994 ossia di 19 anni fa. Ma la malafede dialettica di questa gente non ha pudori e definirla legge del secolo scorso dona quel tocco di antico che serve a impressionare.
Perché dunque sta sorgendo questa idea di imporre oltre ad una moneta unica, ad un mercato unico anche una lingua unica? Perché il pluralismo linguistico sembra essere così pericoloso? Certamente i promotori di questa operazione non intendono vietare la lingua nazionale. L’importante per loro è la omogenizzazione della lingua (l’inglese) che diventerebbe quello che sono i formaggi prodotti dalle grandi multinazionali rispetto ai formaggi locali (italiano, francese). Alle lingue nazionali si lascerebbe quello spazio che riguarda quei quattro pezzenti cultori delle inutili discipline umanistiche. In questo senso il ministro Fioraso è stata chiara pronunciando una battuta che avrebbe voluto essere spiritosa: “… se non ci affrettiamo a introdurre corsi di inglese ci ritroveremo in cinque intorno ad un tavolo a discutere di Proust”. Da notare che questa battuta è la summa della rivoltante arroganza dei cultori della lingua unica: Proust, la letteratura e tutto quanto riguarda cose estranee alla gestione economica del mondo hanno poco o punto valore. Chi le coltiva è un perdigiorno perché, come disse l’allora ministro Tremonti, con Dante non ci si può fare un panino.
Azzone e i suoi omologhi d’Oltralpe sono – riprendo la definizione di Serge Haimi che trovo splendida – dei “fatalisti totalitari”. Questa gente ha già deciso che le cose che contano vanno espresse in inglese, il resto può rimanere nelle vie della lingua nazionale. L’aspirazione alla globalizzazione della cultura è selettiva: si deve globalizzare quel che conta ossia il potere.
La questione della lingua unica è una delle battaglie che i liberisti combattono da anni per vincere la guerra di scardinamento della società che conosciamo. Il potere sta in chi produce il linguaggio e i “produttori di linguaggio” lo sanno. In una società libera imporre per decreto (accademico o meno) una lingua per studiare una determinata materia sarebbe considerato un atto degno di un regime totalitario. Stranamente nessuno sembra preoccuparsi più di tanto. Stranamente perché qui non si vuole far imparare (cosa sacrosanta) le lingue straniere agli italiani: si vuole imporre un’altra lingua, una lingua globale. Perché un conto è imporre lo studio delle lingue straniere, un conto imporre il fatto che una branca della cultura sia veicolata da un’altra lingua. Quello che viene spacciato per modernità è invece un disegno politico di globalizzazione linguistica. Di recente anche Noiseformamerika se ne è occupata. A dire il vero se ne era occupato l’ineffabile Alberto Bisin attaccando Galli Della Loggia nel 2007 in un pezzo tanto stupido e sconclusionato da farci capire soltanto che l’italiano di Bisin è carente come le sue argomentazioni. Spassoso leggere infatti un passaggio secondo cui i docenti moderni “mangiano hamburgers”. Bisin ignora (ma lui è uno che mette i piedi sul tavolo, da del tu ai suoi studenti e magari fa anche con loro le gare di rutto o di camicia aperta sul petto) che le parole straniere in italiano diventano indeclinabili. Perciò “i film” e non “i films”, perché la “s” finale alle parole inglesi all’interno dell’italiano la aggiungono solo i coatti dei lungometraggi di Verdone e Bisin stesso. Probabilmente poiché Bisin ha altro da fare la questione della lingua è stata demandata ad un più giovane caudatario, tal Marco Boninu. Il suo pezzo meriterebbe una analisi attenta perché contiene tutto lo sciocchezzaio che in proposito l’ideologia liberista è riuscita a produrre in questi anni.  Boninu dice la stessa cretinata degli intellettuali francesi sul pezzo di Le Monde: i corsi in inglese servirebbero a far venire in Italia gli studenti stranieri. Pure Boninu – come il più “prestigioso” suo capo Bisin – aggiunge le “s” alle parole straniere (“elites”) e verrebbe voglia già di scartare quanto dice perché – magari – la lezioncina Boninu la potrebbe impartire dopo aver imparato almeno la sua lingua madre. Ma io non sono suscettibile e non faccio questioni di forma. Sto alle affermazioni. E una ve la devo proprio citare tutta di un fiato, scrive Boninu: “un’impostazione dell’insegnamento che continua a dare ancora troppa importanza alle letterature (o alla filologia) nel momento dell’educazione linguistica…tutti tratti di un’impostazione culturale nell’approccio con le lingue che ritornano quando, adottando argomenti di difesa della lingua italiana e del suo uso, si giustifica questa tutela con l’esistenza della sua letteratura, della sua tradizione, dell’importanza di evitare egemonie di sorta e così via.” Allora: l’inglese che va impartito è quello che serve alle pratiche tribali dei giovani professori italo-amerikani come Bisin. Per mettere i piedi sul tavolo e mangiare hamburger con la “s” finale, Shakespeare può anche andare a farsi fottere. Cosa volete che ce ne importi a noi della letteratura e della cultura collegata alla lingua che impariamo? Per noi giovani leoni liberisti l’inglese è ed ha da essere uno strumento (loro direbbero “tool” suppongo). Basta con tutto il ciarpame fatto di cose polverose come la letteratura, la tradizione culturale, il problema delle egemonie …. queste cose si possono liquidare con un “così via”. Boninu prosegue ed in buona sostanza ci dice che ha fatto male il TAR ad accogliere il ricorso avverso alla decisione di Azzone. Al Politecnico si insegna solo in inglese? A te non va? Sei libero di andare a studiare in un’altra Università. Ecco il ragionamento di Boninu. Il che ce la dice lunga sull’idea (assente) di diritto allo studio. Magari il nostro studente milanese non ha anche i soldi per lo studente fuori sede, vorrebbe studiare nella sua città ma no. A Milano certe cose (per il bene del nostro studente) si insegnano solo in inglese. Ma Boninu ci dice una cosa in più. Ci dice che la lingua si difende con la crescita economica! Perché anche la lingua è un “asset” (si dirà così?) sottoposto alle leggi del mercato e della concorrenza. Per tenere in piedi una lingua quel che occorre è vendere e comprare. Se non cresciamo economicamente dobbiamo essere realisti: il socialdarwinismo di Boninu ci condanna. Siamo destinati a morire come i dinosauri. Io mi arrendo, già barcollo per la nausea quando leggo Boninu scrivere una cosa come “efficacia performativa”. Però – nello stesso momento – vengo colto da sensazioni e pensieri contraddittori. Da un lato tendo ad essere ottimista. Se l’argomentare dei neoliberisti “de noantri” è quello di Boninu forse siamo salvi. Forse riusciremo a difendere la nostra lingua anche nelle accademie se chi l’attacca riesce a inanellare simili imbecillità. Ma dall’altro mi incupisco. Perché Boninu ha una laurea, ha un dottorato, qualcuno al momento gli ha anche concesso un assegno di ricerca. Boninu potrebbe essere il futuro di questo Paese, un futuro che si misura in termini di “efficacia performativa”. Ed il pensiero corre ad Alberto Sordi e alla sua eterna dimostrazione di quanto possa essere provinciale qualsiasi imbecille con il mito amerikano.